BDV ponte

Fu Angela Merkel nel 2010 a inaugurare la stagione della fine del multiculturalismo, definendolo un totale fallimento. Di lì a poco venne seguita da David Cameron. Entrambi spinti dalla necessità di arginare una diffidenza che andava facendosi pericoloso malcontento. Qualcosa di fondato nella loro critica c’era.

Un paradosso denunciato dallo stesso Cameron in quel suo discorso alla conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2011. “Sotto la dottrina del multiculturalismo di stato – disse il premier inglese - abbiamo incoraggiato culture differenti a vivere vite separate, staccate l'una dall'altra e da quella principale. Non siamo riusciti a fornire una visione della società, alla quale sentissero di voler appartenere. Tutto questo permette che alcuni giovani musulmani si sentano sradicati.”

Un paradosso ben descritto dal filosofo britannico Kenan Malik nel suo pamphlet del 2013 “Il multiculturalismo e i suoi critici”. “Il punto di partenza delle politiche multiculturaliste - scrive Malik - è l’accettazione della diversità nelle società. C’è però un presupposto sottaciuto, cioè che tale diversità si ferma ai confini della comunità di minoranza”. Trattare la comunità di minoranza come un insieme omogeno ne presuppone la discriminazione e, come osserva acutamente Malik, porta il governante ad ignorare i conflitti interni alla comunità stessa.
“Le politiche multiculturaliste, in altre parole - prosegue Malik - non hanno risposto alle esigenze delle comunità ma, in senso lato, hanno contributo a creare queste comunità imponendo identità alle persone e ignorando in conflitti interni che emergevano per differenze di classe, genere sessuale e all’interno della stessa religione. Hanno rafforzato non le minoranze, ma i cosiddetti esponenti delle comunità, che dovevano la loro posizione e influenza soprattutto alla loro relazione con lo Stato”.

Conseguenza di ciò è la messa in competizione delle diverse minoranze per l’accesso a risorse a loro distribuibili solo in quanto minoranze e, di conseguenza, il connesso rafforzamento degli esponenti più tenaci e intransigenti. Un circolo vizioso in cui le comunità di minoranza vedono aumentare di giorno in giorno il loro grado di isolamento, con due estremi pericoli in agguato.

Il primo è che una volta emarginata, la comunità di minoranza risulti più facilmente additabile come responsabile dei mali del Paese. Una premessa che sappiamo aver avuto conseguenze funeste nel secolo scorso.

Il secondo è che la comunità emarginata diventi maggiormente permeabile al suo interno a ideologie estreme, radicali ed eversive. In entrambi i casi, la premessa per spargimenti di sangue e conflitti fatali.

 

Perché le politiche multiculturaliste?

Nell’opera sopra citata Malik spiega che “Le politiche multiculturaliste sono emerse non perché pretese dagli immigrati, ma in primo luogo perché l’élite politica se ne è servita per gestire l’immigrazione e mitigare la rabbia creata dal razzismo”. George Friedman, analista politico fondatore di Geopolitical Futures ricorda che “L’onere di assimilare i migranti nella società si fece più gravoso quando il malcontento musulmano si manifestò apertamente in Europa negli anni ottanta. La soluzione escogitata dai tedeschi fu il multiculturalismo, una proposta liberale e umanitaria che offriva agli immigrati un ottimo affare: mantenere la propria cultura, promettendo in cambio lealtà verso lo Stato”. 

Un’impostazione che, come dice Friedman, appariva rispettosa della diversità, ma in realtà era più che altro interessata a comprare lealtà dai migranti. Probabilmente, come sostiene ancora Friedman, la Germania non sapeva in quegli anni nemmeno come integrare gli immigrati. Tale forma di multiculturalismo, però, finì per rappresentare non tanto una forma di rispetto per la diversità, “bensì un espediente per eludere la questione di fondo, ossia cosa significasse essere tedeschi e quale percorso gli stranieri avrebbero dovuto percorrere per diventare tali.”

 

Evitare la trappola del multiculturalismo

Nonostante il paradosso sottostante, la risposta multiculturale è sul breve termine quella più semplice ed efficace per accogliere immigrati di culture diverse e mantenere la pace sociale. Dobbiamo quindi dare per scontato che si tratti di una pratica che continuerà. Ma sul lungo termine, come intervenire per evitare l’emersione di quel paradosso? Come rapportarci oggi verso quegli almeno 50 milioni di musulmani che vivono in Europa e neutralizzare i presupposti di un conflitto?

La soluzione credo debba partire da una premessa che a qualcuno potrà apparire indigesta e grossolana: essere maggioranza conta. Conta perché è la comunità di maggioranza insediata (ossia composta da chi sta già nella società rispetto a chi vi arriva da fuori) che detta le regole del gioco e queste regole non potranno non essere “autoconservative”. Non potranno, cioè, ammettere pregiudizi in proprio danno. Rispetto alla comunità di minoranza il paradosso conflittuale del multiculturalismo si supera allora non con politiche di passiva tolleranza e nemmeno con quell’oggetto misterioso che è il “liberalismo muscolare” teorizzato da David Cameron.

Bensì con la promozione, da parte della comunità di maggioranza, delle affinità elettive presenti nella comunità di minoranza che si trovi in pericolo di infiltrazione da parte di ideologie violente ed eversive. Per tornare alle parole di Malik, si tratta di accompagnare l’emersione dei conflitti interni alla comunità di minoranza (a partire da quelli sulla religione), prendendo posizione per le posizioni affini. Promuovere dibattitti, destinare risorse, fare pubblica opinione per esaltare le affinità elettive e gettare così le basi per quelli che possiamo chiamare ponti d’uscita dalla comunità di minoranza (nel senso che danno modo, in astratto, di entrare nella comunità di maggioranza) .

Sarà così più facile, ad esempio, indossare pantaloni corti o rifiutare il velo per una ragazza musulmana che si trovi in conflitto con i propri genitori. Ma ciò ha anche il pregio, oggi incommensurabile, di togliere argomenti agli attacchi spietati dell’attuale destra paranoide. Ma cosa vuol dire promuovere le affinità elettive?

In concreto vuole dire, ad esempio, chiudere i ponti europei con l’Arabia Saudita e promuovere dentro le comunità islamiche d’Occidente il pensiero di Mohamed Talbi. Vuol dire destinare risorse all’apertura di moschee dove sia vietato il burqa e le donne possano esercitare come imam, come quella di Berlino, quella di Copenaghen o di Berkeley. Significa, sì, anche promuovere spot per educare al rispetto della donna.

 

La cultura non è un monolite

Si obietterà che un simile approccio è molto illiberale, perché teso a influenzare la scelta dall’alto. Qui arriviamo al punto conclusivo. Ogni cultura è il frutto di contaminazioni reciproche fra esperienze e culture diverse. Non esiste un dato insieme di valori europei che trascenda la storia, così come non esiste un corpus di valori islamici scritto sulla pietra.

L’Islam d’Occidente esiste già come qualcosa di diverso da quello mediorientale. La tesi dello scontro di civiltà pecca proprio in questo: nel ritenere che le culture siano storicamente determinate ed immutabili. I valori della civiltà europea e di quella mediorientale, invece, si sono contaminati e trasformati nei secoli vicendevolmente. Ma in questo processo di contaminazione reciproca, è inevitabile che la comunità di maggioranza eserciti un influsso maggiore e, all’interno del proprio perimetro statuale, abbia tutto il diritto di farlo. Accompagnare e indirizzare la soluzione dei conflitti (a cominciare da quelli religiosi) all’interno della comunità di minoranza in un senso affine a quello che seguirebbe la comunità di maggioranza, è la risposta più naturale che vi possa essere rispetto al principio di autoconservazione che regola ogni attività umana. L’alternativa è l’isolamento e, alla lunga, il conflitto, anche terroristico.

Avrete visto che è musulmana praticante la giudice che, a Londra, ha tolto una bimba all’affido di una famiglia islamica dipinta come piuttosto intransigente. Si tratta del frutto della costruzione di un ponte d’uscita verso la comunità di maggioranza. Per evitare il conflitto, ancora una volta, vanno costruiti ponti, tenendo però a mente che non tutti i lastricati sono uguali. Poi c’è chi il conflitto lo vuole, anche violento. Ma questa è un’altra storia.