Il mondo funziona perché le persone si assumono responsabilità personali. Quando andiamo al supermercato a fare la spesa possiamo ragionevolmente credere che non moriremo avvelenati, perché tutti i soggetti che hanno prodotto le merci che acquistiamo - dagli agricoltori, ai produttori, ai venditori - sono vincolati alle loro rispettive responsabilità.

Questo principio non sembra applicarsi a molto del giornalismo italiano, in particolare quello televisivo, dedicato ai cosiddetti “programmi di approfondimento”. E’ un problema che la pandemia prima, e l’invasione russa in Ucraina poi hanno messo in drammatica evidenza. Queste piattaforme mediatiche sono diventate “cavalli di Troia” per la diffusione di menzogne e teorie false, per bocca di commentatori chiamati a intervenire in nome di un malinteso principio di pluralismo e rispetto della libertà di espressione. Dalle sparate televisive del professor Alessandro Orsini, alla clamorosa intervista senza domande al ministro degli esteri russo Lavrov su Rete 4, molti casi di “libera disinformazione” segnalano un problema strutturale nell’offerta giornalistica italiana.

La funzione del giornalismo è informare, e la responsabilità connessa del giornalista è verificare le informazioni, facendo ogni sforzo possibile (uno sforzo collettivo, le redazioni servono anche a questo) per escludere quelle false. Proprio questo aspetto differenzia l’informazione giornalistica dal “rumore di fondo” a cui tutti siamo quotidianamente esposti: essa è (dovrebbe essere) il risultato di un esplicito impegno professionale, da parte degli operatori - le testate, i direttori, i giornalisti - a controllarne la veridicità, simboleggiato dalla firma in calce agli articoli. Così, nei paesi liberi e democratici, abbiamo delle figure terze che ci garantiscono, mettendoci la faccia e assumendosene la responsabilità personale, informazioni di qualità che sarebbe altrimenti impossibile procurarci da soli, non diversamente da come avviene per gli altri generi di prima necessità.

I conduttori di alcuni noti talk show di reti pubbliche e private hanno però trovato nel cosiddetto “principio del pluralismo” e della libertà di espressione un comodo escamotage per eludere questa responsabilità. Sostenere, come fanno, che è un dovere “far sentire tutte le campane” significa dire una bugia: un programma televisivo, come un qualsiasi articolo giornalistico scritto, è infatti uno spazio per definizione assai limitato, che il giornalista “riempie” selezionando discrezionalmente a chi dare voce, e in che termini. Ammettere in questo spazio chi diffonde teorie e informazioni palesemente false e manipolatorie e “intervistare” lasciando campo libero agli intervistati nel dichiarare menzogne, significa venire meno all’impegno professionale di verifica dei contenuti che si divulgano.

I giornalisti non possono certo essere considerati responsabili delle menzogne degli interlocutori che si scelgono, ma lo sono senz’altro rispetto alla loro visibilità e efficacia. Non è colpa del supermercato se esistono agenti settici o chimici che rendono tossici i prodotti, ma è sua responsabilità controllare che non siano presenti in quelli che mette in commercio. Non farlo comporta l’intossicazione del proprio comunque limitato giro di clientela. I giornalisti che sfuggono alle proprie responsabilità professionali, spacciandosi per paladini della libertà di espressione, costituiscono un pericolo ben più grande: potenzialmente avvelenano l’intero dibattito pubblico e la società libera e democratica.