tortora grande

Le polemiche sulla bocciatura da parte della Corte Costituzionale dei referendum su cannabis e eutanasia, per motivazioni relative alla formulazione tecnica dei quesiti, hanno occultato la decisione presa ieri al Palazzo della Consulta, che ha fatto un’altra vittima eccellente, cioè il referendum sulla responsabilità civile diretta dei magistrati.

In questo caso la motivazione accennata dal Presidente Amato nella conferenza stampa di ieri – quella della “innovatività”, e non mera “abrogatività” del quesito – rimanda al più abusato latinorum della giurisprudenza antireferendaria della Corte, che Pannella per questo gratificava del titolo di “suprema cupola della mafiosità partitocratica” e – si potrebbe aggiungere – “magistratocratica”.

Vediamo i termini della questione. La legge 117/1988, come modificata, dopo le censure della Corte di Giustizia europea, dalla legge 18/2015, prevede che il cittadino che ha subito un danno per dolo o colpa grave del magistrato non possa agire direttamente contro di lui, ma debba farlo contro lo Stato, che si rivale successivamente contro il magistrato, in modo peraltro non automatico. Non tutte le azioni di risarcimento che portano alla condanna dello Stato implicano un’azione di rivalsa nei confronti del magistrato, ma solo quelle per diniego di giustizia, o per cui “la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove”, siano stati “determinati da dolo o negligenza inescusabile”.

Il referendum chiedeva di eliminare lo schermo rappresentato dallo Stato e di prevedere che le azioni di risarcimento venissero fatte nei confronti di chi cagiona il danno, secondo una logica, identica a quella del referendum Tortora del 1987, secondo cui i magistrati sono equiparati a funzionari pubblici, che, in base all’articolo 28 della Costituzione, “sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti”.

Prima del referendum del 1987, il codice di procedura civile (artt. 55, 56 e 74) prevedeva che i magistrati fossero civilmente responsabili solo a fronte di condotte dolose o criminali e solo a seguito della autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia.

In termini di “innovatività”, il referendum del 1987, che la Corte ai tempi ammise, era decisamente più impattante di quello ieri bocciato, perché non si limitava a cancellare alcune disposizioni, ma, attraverso la parziale modifica del codice civile, a rovesciare integralmente la disciplina della responsabilità dei magistrati.

Il referendum ieri non ammesso, a differenza di quello del 1987, non avrebbe cambiato letteralmente in nulla la legge in vigore circa i presupposti di risarcimento per il danneggiato e i profili di responsabilità del magistrato “danneggiante”, ma semplicemente avrebbe consentito l’azione diretta contro il magistrato, come richiesto ai tempi anche dal referendum Tortora.

Sempre a proposito di “innovatività”, con la sentenza  che ammise il referendum del 1987 la Consulta non si fece nessun problema di autorizzare un quesito “con cui si viene a coinvolgere nella sua interezza lo specifico regime che, allo stato attuale della legislazione, contraddistingue la responsabilità civile dei magistrati”.

La ragione per cui la Corte ha smentito in modo abbastanza plateale un precedente di trentacinque anni fa, quando un quesito molto più innovativo sul medesimo tema venne accolto, non è neppure coerente con la successiva evoluzione della giurisprudenza in materia referendaria, che ha invece aperto in modo molto più sostanziale a quesiti manipolativi (non solo in materia elettorale). Peraltro è curioso che Amato usi un argomento con cui nel 1987 la Consulta avrebbe dovuto bocciare il referendum Tortora, di cui il PSI e lui stesso erano promotori.

Si fa forse peccato, ma probabilmente ci si azzecca se si conclude che la decisione della Corte è stata fatta per togliere dal menù dei referendum sulla giustizia quello simbolicamente più rappresentativo e politicamente trainante. Una decisione “di servizio”, non alla Costituzione, ma alla campagna astensionista.