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Il disagio psichico è sfuggente, inafferrabile. Spesso viene tenuto nascosto: è considerato una vergogna da chi ne soffre, oppure come qualcosa di incomunicabile. Chi ne resta invischiato, vive schiacciato dalla convinzione che ci sia qualcosa di sbagliato nella sofferenza, che gli altri possano deriderla, non capirla, non ascoltarla. Così non ne parla, non vuole neanche cercare le parole per identificarla, per testimoniarla a se stesso. Ma il dolore ignorato, inascoltato, cresce a dismisura. Magari in una stanza della nostra casa, in cui pensiamo che si stia soltanto svolgendo una lezione su di una piattaforma didattica. Lì dentro c’è nostra figlia oppure nostro figlio. Uno dei tanti adolescenti. Uno dei tanti figli delle famiglie italiane. Famiglie rassicurate dal fatto che le lezioni nonostante tutto proseguono; che i compiti vengono svolti; che gli insegnanti sono soddisfatti del programma scolastico, che procede spedito.

Da dietro uno schermo, dove galleggiano, pallide figurine, i volti dei nostri ragazzi, è difficile intuire ciò che si nasconde in una espressione improvvisamente vacua, in una distrazione, in un temporaneo oscuramento della telecamera. Ci si accorge di come stiano realmente le cose quando è già troppo tardi: quando uno di loro viene improvvisamente ricoverato perché da giorni non mangia più; quando un collega ti racconta di un altro ragazzo che ha tentato di farsi del male. A quel punto decido un giorno di sottrarre un’ora allo svolgimento del programma, di dedicarla ad una bella discussione di gruppo. Se lo meritano in fondo, quelle ragazze e quei ragazzi: studiano sempre. Sono bravi. Non fanno che studiare.

Voglio farli parlare, anche perché mi ricordo che a loro, stigmatizzati dalla stampa come untori e irresponsabili, sono state tolte tutte le cose che rendono la vita degna di essere vissuta; che vivono incatenati unicamente alla didattica digitale, come polli d’allevamento. Man mano che parlano, scopro che tutti, nessuno escluso, hanno intrapreso lo stesso cammino. Un cammino che inizia invariabilmente con un aumento dell’intensità dell’ansia. Inizio a sentirmi in colpa: non mi ero allarmato più di tanto quando qualcuno giustificava l’impreparazione dicendo di non riuscire più a dormire la notte, svegliato di soprassalto da un’ansia inspiegabile. Pensavo a un episodio passeggero. Invece è la prima tappa.

Il cammino prosegue con la paura che dilaga anche in pieno giorno, togliendo loro ogni fiducia, ogni prospettiva: le quattro mura della loro stanza sono un confine invalicabile, dietro il quale non c’è più alcun futuro. Dietro c’è solo la paura. Ma non sanno dare un motivo, un volto, un’origine a tutto questo. Arrivano così la rabbia, la disperazione. E dato che non riescono a comprendere fino a che punto siano loro le vittime incolpevoli, questa rabbia la ritorcono su loro stessi: la bulimia e l’anoressia sono forme di autopunizione. Non sapendo chi o cosa dovrebbe essere odiato, odiano se stessi. Si detestano. Un’altra forma di autopunizione, ancora più sconvolgente, sono i tagli ai polsi.

Quello che è emerso di fronte a me, purtroppo, non è un caso isolato: è una gravissima emergenza, che in un mondo normale avrebbe fatto indignare, avrebbe fatto scendere in piazza migliaia di persone, avrebbe riempito le pagine dei giornali e i palinsesti televisivi. Avrebbe fatto suonare un allarme che invece è sovrastato da un’emergenza che si crede “superiore”, ma che semplicemente si accompagna a questo e per certi versi lo determina al punto da cronicizzarlo e da fare apparire il rifugio in casa e il rifiuto dalle relazioni sociali e della vita scolastica come una “soluzione”. Il problema è diventata la soluzione. Da qualche giorno saltano fuori comitati di genitori che si dicono contrari al ritorno in classe dei propri figli. I giornali e i mezzi di comunicazione ne approfittano e sulle comode poltrone dei salotti televisivi iniziano a essere organizzati i confronti: i favorevoli alla scuola digitale contro i contrari. Come se un crimine potesse essere argomento di dibattito!

Ma serve a spostare il problema: non si deve assolutamente discutere degli effetti di questa didattica e della trasmutazione della scuola in una attività che non ha più nulla di propriamente scolastico, ma soltanto astrattamente dei vantaggi e degli svantaggi “epidemiologici” della Dad (Didattica a distanza); offrendo a un popolo di telespettatori gli argomenti su cui dibattere; suggerendo le appartenenze e le risposte da dare all’occasione agli avversari. Ma non è una farsa, come si vorrebbe fare credere: è una tragedia! L’Italia è il Paese che ha chiuso prima di tutti e più di tutti gli altri le scuole e che ha considerato le scuole la prima cosa da chiudere. Non c’entra niente il Covid, c’entra un’idea folle e puramente “istruttiva” dell’attività scolastica, che invece per tutti i ragazzi è la prima, se non esclusiva, forma di attività sociale e relazionale. L’idea pazzesca, se non criminale, è che la scuola può essere chiusa perché è la cosa che costa meno chiudere. Meno dei bar. Meno degli uffici. Meno delle industrie. Anzi che chiudere non costa niente, perché scuola e Dad sono uguali e a differenziarle è solo un paradigma tecnologico.

L’informazione sposta abilmente il problema, quando è imbarazzante discuterne. Così, piuttosto che riflettere democraticamente del modo più opportuno di gestire l’epidemia; degli svantaggi e dei vantaggi delle chiusure forzate e dei confinamenti; dell’opportunità di soluzioni differenti, ha riempito giornali e televisioni dell’unico dilemma su cui sia consentito dibattere: credere al Covid oppure non credere al Covid. Il dilemma è penetrato in profondità nelle strutture cognitive della gente. Ha creato fazioni avverse, che si illudono che il nemico sia chi ha scelto l’altro dei due schieramenti presenti sul campo, e non invece chi organizza e approfitta di queste divisioni.

Allo stesso modo, invece di ragionare sui veri motivi del fallimento di tutte le disastrose scelte compiute per contenere il contagio, si inventano irresponsabili sui quali far ricadere le colpe. Non si tratta di un gesto innocuo. La categoria additata subisce le più crudeli conseguenze, come sta capitando oggi ai ragazzi. Sono loro che hanno colpa, perché vanno a scuola, perché vanno in giro, perché si “assembrano”.

Tuttavia, la responsabilità più grande non è certo dell’informazione: è di noi insegnanti invece. Avremmo dovuto essere noi ad opporci fin da subito alla scuola sulle piattaforme. Invece, l’abbiamo accettata: più comodo lavorare da casa; meno problemi di disciplina; un lavoro didattico più superficiale e molto meno impegnativo. Certo, alcuni insegnanti hanno sinceramente paura.

Ma io mi chiedo questo: quando un giorno questi ragazzi comprenderanno pienamente la violenza subita e neppure compresa come tale, quando questo tempo sarà pubblicamente additato come un tempo di ingiustizia, cosa diranno essi di noi? Di noi che nulla abbiamo fatto per difenderli? Di noi che abbiamo invece applaudito con entusiasmo ad una forma così aberrante di scuola, fino a presentarla come una nuova e auspicabile “normalità”?