RCEP big 

Il 15 novembre scorso mentre in Italia si discuteva di zone gialle, rosse e arancioni e negli Stati Uniti si era appena concluso lo spoglio delle elezioni Presidenziali in Georgia, ad Hanoi, in Vietnam 15 Governi di Asia e Oceania hanno sottoscritto il più ampio accordo commerciale del Mondo, che riguarda il 30% del Pil mondiale e oltre 2 miliardi di abitanti.

Il nome di questo gigantesco accordo commerciale è RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership) e vede la partecipazione asiatica di Cina, Giappone, Corea del Sud, Vietnam, Laos, Thailandia, Cambogia, Myammar, Singapore, Malesia, Indonesia, Brunei, Filippine e dei principali paesi dell’Oceania, Australia e Nuova Zelanda: al momento - dopo aver preso parte alle lunghe trattative durate 8 anni - l’India ne resta fuori.
I tessuti produttivi dei Paesi coinvolti nel Rcep raggiungono il 50% della produzione mondiale automotive, il 70% di quella elettronica, e attraggono un quinto degli investimenti diretti esteri mondiali; la portata di questo accordo sancisce dunque in modo definitivo che oggi il motore del Mondo è l’Asia-Pacifico meridionale. Il PIL aggregato dei Paesi sottoscrittori del RCEP è pari a 25,6 triliardi di dollari diventando l’area commerciale comune più ricca superando il Nord America che raggiunge i 24,6 triliardi e l’Ue ferma a 18,8 triliardi.

Il RCEP punta ad abbattere subito le tariffe doganali del 65% e fino al 90% nel medio lungo periodo. Oltre al vantaggio tariffario il RCEP si caratterizza per un’omologazione dei certificati sull’origine dei prodotti riducendo così notevolmente i costi di spedizione e favorendo un’integrazione molto forte delle catene del valore, che sempre più in questa secondo fase della globalizzazione sembrano andare a strutturarsi su scala regionale e meno globale. Nello specifico del RCEP tale è la divergenza dei sistemi coinvolti - si va dal ricchissimo Singapore alla poverissima Cambogia- che l'obiettivo sembra quello di affidare ad ogni paese specifiche produzione a valore aggiunte crescenti e decrescenti per intensità di lavoro. In questo modo i paesi più poveri si insedieranno nelle parti basse delle catene del valore e quelli ricchi in quelle alte, una scelta che rischia di assoggettare a una perenne sudditanza industriale e commerciale i paesi con sistemi produttivi più fragili a meno che non si introducano strumenti di compensazione, oggi del tutto esclusi dai sottoscrittori.

Dal punto di vista geopolitico il principale effetto è la disfatta delle politiche protezioniste e aggressive di Trump verso la Cina, che si riprende così una fortissima rivincita politica nei confronti degli Stati Uniti i quali in realtà, sul finire della presidenza Obama avevano siglato un Accordo, il TTP, con i paesi di questa area proprio per non perdere a vantaggio della Cina l’egemonia su questa importantissima parte di mondo. Trump appena entrato alla Casa Bianca pensò bene di stralciare quell’accordo.
Il valore di questa sconfitta geopolitica per Washington sta anche nell’adesione al RCEP non solo di due storici fedelissimi alleati asiatici, Sud Corea e Giappone, ma nell’allargamento dell’accordo a Nuova Zelanda e Australia che sono legati a Washington dall’importantissima cooperazione di intelligence denominata Five Eyes: in questo modo i due paesi oceanici, il Canada e il Regno Unito, condividono con gli USA tutte le delicatissime informazioni di intelligence.

Cosa succederebbe se Nuova Zelanda e Australia - alla luce del nuovo accordo commerciale - si aprissero a scambi di prodotti e investimenti in infrastrutture tecnologiche cinesi? Oggi l’accordo esclude collaborazioni industriali in ambiti strategici, ma l’aumento dell’influenza politica cinese su tutta l’area crescerà notevolmente e comunque Pechino potrebbe imporre già oggi i propri standard tecnologici su 5G, 6G o sulla propria tecnologia di geolocalizzazione BeiDou alternativa al gps americano. L’entrata di tecnologie cinesi nelle infrastrutture digitali di alleati tanti intimi agli Usa quali sono Nuova Zelanda e Australia potrebbe sostanzialmente compromettere la capacità di raccolta di informazioni e dati delle principali agenzie di sicurezza americane, regalando a Pechino un vantaggio strategico incalcolabile.

Non solo: la Cina con il Giappone e con la Corea del Sud potrebbe definitivamente superare il principale gap competitivo con l’America, ovvero l’industria dei microprocessori che in Cina è ancora nettamente più scadente di quella americana, ma anche giapponese, coreana ed europea. Saper fabbricare microprocessori di elevata qualità significa, non solo produrre decine di milioni di smartphone in più, ma soprattutto dotarsi di supercalcolatori autonomamente rispetto agli Stati Uniti i quali primeggiano ancora sui cinesi nel supercomputing solo grazie alle pressioni fatte da Trump sui governi europei e asiatici per non vendere questo tipo di tecnologie alle imprese cinesi.
La sottoscrizione di questo accordo non è un buon segnale neanche per i diritti umani e per l’ambiente dal momento che non vi sono accenni o clausole che in qualche modo li richiamino: una brutta notizia per chi - come l’Unione Europea e i democratici americani - pensa possibile utilizzare i trattati di liberi scambio quale strumento di promozione dei diritti umani, sociali e ambientali.