Dalla società aperta alla società senza muri. Pluralismo e diritto in ‘Fratelli tutti’
Diritto e libertà
La Lettera Enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco non è semplicemente politico-sociale, è una enciclica propriamente etica. C’è in essa una complessa analisi del valore dell’identità nazionale e culturale: il bersaglio polemico e la categoria del “muro”, quello dei cuori e quello tra i territori.Se l'identità di potere e nazionale, infatti, diviene oppressiva porta ad una omogeneizzazione delle differenze, ad una svalutazione dei diversi, funzionale alla cultura dominante, allo status quo.
In tal senso inteso il globalismo, l'apertura dei mercati – per Francesco – porta con sé non solo l’occasione di pluralismo e collaborazione ma, troppo spesso, il rischio di un’oppressione che giunge a fomentare il “disprezzo di sé” nelle culture sottomesse, spinte non a creare ma solo a comprare e a copiare.
L’appiattimento culturale sugli standard di dominio, quindi, è strettamente legato all’identitarismo settario che nell’ altro, nello straniero, nel debole, vede il nemico, il criminale o, al meglio, lo sfruttato da compatire: “Demolire l’autostima di qualcuno è un modo facile di dominarlo”.
Per il Pontefice, quindi, la dinamica di potere economico privo di bilanciamenti giuridici e politici, muta di segno ai concetti di tradizione e di specificità culturale: da esistenziali propri della complessità umana diventano elementi negativi piegati alle esigenze dei potenti.
L'unica tradizione che conta, così, è quella dei Paesi economicamente forti e le specificità culturali diverse vengono, dunque, disprezzate e condotte ad auto disprezzarsi, nell’alienazione ingenerata dal modello culturale forte e dall’incapacità di raggiungere eguali standard di vita, introitati come impossibili.
È ovvio che in tale contesto ciò che manca, ciò che sembra a Francesco ormai estraneo al Mondo o, meglio, ai “mondi isolati” nell’ appiattimento delle differenze, è proprio la narrazione e il valore condiviso tanto dell’ “unica umanità” - come riconoscimento di fraternità - quanto di una coscienza storica che resiste, nell’ orgoglio, allo sradicamento operato dalle esigenze di potere.
Nel vissuto di credenti e non credenti, tale sradicamento sociale dalle fonti comuni dell’appartenenza unica (che non è patrimonio solo della nostra epoca ma rischio sempre incombente) conduce alla sorpresa di fronte al gesto buono, all’ eccezione di senso rappresentata dal “samaritano” che, oggi come allora, nello sconfessare le facili e disincantate reazioni di fronte al dolore dell’ estraneo, svela la possibilità di una scelta, di una articolazione di coscienza che contrasta con la “società dell’esclusione” e che proietta l’impegno per un nuovo tipo di relazioni, di riconoscimento e di auto riconoscimento.
A questo livello del discorso, per il Papa non si tratta di promuovere un’ideologia o di proporsi come pianificatore illuminato di nuove forme politiche, il punto di partenza e il centro dell’enciclica è, infatti, la responsabilità individuale, il sussulto etico che si riverbera nell’amicizia sociale: “Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo dialogare”.
Di fronte al dolore generato dall’esclusione economica della povertà (o dalla pandemia), la scelta comunitaria è sempre possibile, è sempre possibile l’azione inclusiva come originario cui siamo chiamati da sempre.
Nei momenti di crisi, infatti, chiunque non sia il “brigante” (chi aggredisce) e chiunque non passi a distanza, indifferente (come tanti, appunto, nella parabola del samaritano) o è colui che giace ferito o è chi sta portando sulle spalle qualche ferito.
Dire, ancora una volta, da quale parte devono stare i cristiani in tale ambito non è nuova demagogia, non è cambiamento di passo rispetto ai predecessori, è semplicemente Vangelo.
Di certo l’approccio di Francesco – se proprio dovessimo cercare una cifra di specialità – brilla per essenzialità e chiarezza che non cede a facili auto assoluzioni clericali: sono il sacerdote e il levita, infatti, a girare al largo dal ferito mentre il samaritano - il senza fede – è proprio lui – l’estraneo - a fermare il mondo per aiutare il prossimo, a farsi prossimo al dolore.
Ed è per questo che il Pontefice arriva ad affermare “il paradosso secondo il quale coloro che dicono di non credere possono vivere la volontà di Dio meglio dei credenti”.
Tale approccio laico e lontano dal confessionalismo oppositivo, può ingenerare – occorre riconoscerlo – uno straniamento innanzi al rigetto dell’uso delle Verità trascendenti quali forme identitarie (e politiche) di contesa dottrinaria ma, a ben vedere, è proprio la trascendenza divina che emerge dall’eccezione samaritana e che svela - come cedimento culturale all’immanenza di potere - la difesa corporativa e gelosa delle proprie dottrine, l’abuso di Dio quale fonte – e non risolutore – dei conflitti.
L'approccio etico non può che condurre, tra l’altro, ad un autonomismo refrattario al cedimento statolatrico: “non dobbiamo aspettare tutto da coloro che ci governano, sarebbe infantile”, lo spazio di responsabilità individuale è, infatti, per Francesco, lo spazio d’azione della sussidiarietà, l’impegno per la giustizia “dal basso e caso per caso”, in grado di avviare nuovi processi e trasformazioni e che devono essere poste al centro del discorso politico.
Il “noi” a cui ci chiama l'enciclica, quindi, non è l’io riassuntivo ed esclusivo del Leviatano ma il frutto della collaborazione spontanea di uomini liberi e coscienti: è un inno alla Società non al potere; ecco il senso del lottare “fino all’ultimo angolo della patria e del mondo” (senza contrapposizione, quindi, tra patria e mondo). Ecco cosa significa l'invito ad impegnarsi senza sotterfugi “per ciò che è più concreto e locale”.
Significa, in ultima analisi, che l’irresponsabilità pavida di chi si affida solo al potere costituito, all’ intervento dall'alto, disconosce che “il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma” ed è questo davvero – in una cattolicità correttamente intesa nel senso dell’unità nella distinzione - il proprio di un atteggiamento cristianamente orientato.
Il “prossimo” è, dunque, “dovere di presenza”, non facile riconoscimento di somiglianze magari imposte dalle esigenze del mercato: è superamento liberante di barriere e ostacoli per l'affermazione di una cultura e di una fraternità originaria che vive e che non è contraddetta dalle differenze.
Ovviamente, per Francesco, da questo concetto di prossimo e presenza si sviluppa un’idea di Comunità che, a livello trascendente, affonda le sue radici nel mistero della relazione trinitaria: “Ci incontriamo con una Comunità di tre Persone, origine e modello perfetto di ogni vita in comune”.
Un mistero che, però, anche per i laici e i non credenti (e in tal senso mi sembra importante sottolineare il contributo “teologico-politico” di E. Peterson, C. Schmitt e di J.B. Metz) può condurre ad importanti e profonde riflessioni liberali: perché la relazione somma di Potere vive di una articolazione plurale senza preminenza che, pur intraducibile in facili similitudini nel contesto politico mondano, rimanda – senza alcuna giustificazione dall’Alto - ad una analogia di forme (e non di sostanze) che può, senz’altro, arricchire le acquisizioni democratiche sulla divisione e articolazione equilibratrice dei poteri, nel dialogo.
In tal senso, a me pare, che proprio questa possibile ricaduta teologico-politica possa rappresentare una forma di quello che il Pontefice, nell’enciclica, delinea come “il servizio delle religioni per la fraternità nel mondo”.
Lungi dal ritiro nel puro teologico, Francesco ribadisce, infatti, il ruolo della fede nel dibattito pubblico: non solo, dunque, “i potenti e gli scienziati” ma anche la riflessione che procede da un’apriori religiosa deve avere spazio e riconoscimento comunitario.
Le religioni, infatti, posseggono un importante patrimonio storico e meta storico di conoscenze condivise che oggi è indispensabile per scardinare il semplicismo materialista e riduzionista.
E a tal proposito Francesco – richiamandosi espressamente all’insegnamento di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI – indugia sulla “forza motivante” delle tradizioni spirituali e religiose, non semplicisticamente per superare la “ragione” in una deriva mistico-escatologica ma, al contrario, per sostenerla (la ragione) in un passaggio spirituale ulteriore, per aiutare a comprendere come la strumentale deposizione della trascendenza, l’abbandono dell’ impulso mitigante ogni conflitto - proprio della “coscienza di figli” - conduce non alla liberazione ma alla deflagrazione della “forza del potere”, libero di imporre il proprio interesse e la propria opinione.
La negazione della trascendenza di senso rispetto alle verità del Mondo, secondo questo approccio, conduce alla radicale messa in discussione dei diritti dell’altro, esperito come estraneo.
La mancata apertura “al Padre di tutti” destruttura, infatti, qualsiasi appello ragionevole alla fraternità, lo rende instabile, precario, oggetto di facile negazione interessata.
E proprio nella Caritas in veritate di Papa Ratzinger (giugno 2009), si trova questo passo illuminante citato da Papa Francesco:
“[…] la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternita”.
“Secoli di esperienza e di sapienza”, congiunte alla forza viva di una fede che si traduce nella ripetizione costante della sequela christi, posseggono, infatti, una spinta per il miglioramento e per il progresso umano che – per il Papa - non possono essere facilmente rigettate dalla politica.
Siamo, dunque, con questa enciclica, decisamante oltre il monoteismo autoritario come problema politico, per giungere alla critica religiosa di ogni sottomissione violenta: al di là dei muri significa, infatti, che oltre la chiusura del Sé c'è il legame che svela il noi tutti.
Non conta tanto – e qui Francesco sfida la tentazione del romanticismo etico e politico - l'intensità escludente e aliena dalla responsabilità per il mondo di un rapporto chiuso e geloso, quanto l'apertura serena, razionale - conscia della Storia e della Natura - al significato altrui che è specchio del significato nostro, unico movimento di progressiva comunione possibile che affonda nel mistero del gesto buono, del gesto che salva, accogliendo.
Dalla Società aperta alle Società senza muri, quindi, mi sembra di poter così riassumere il senso dell’invito di Francesco, in un passaggio che non supera l’eredità liberale, tutt’altro, e che, nel pluralismo, la esalta facendola diventare liberante, ancora più etica, sociale.
È un'apertura esistenziale quella di cui ci parla Francesco, l’accoglimento di tutti nel reciproco rispetto senza “esiliati occulti”, senza esclusi dalla cittadinanza, dai diritti universali.
E cosa è il liberalismo se non questo?
L'amicizia sociale, infatti, è pace e la pace è l'ideologia delle società libere, prospere nella commistione delle diversità che, con la cooperazione e nello scambio, generano ricchezza spirituale e materiale.
Non c'è, quindi, “Potere” in questa enciclica, non c’è rassegnazione alla violenza (neanche a quella istituzionale) se non per essere oggetto di critica nelle forme dell’indifferenza, dell’esclusione, della povertà come stigma e destino.
Non ci si può abituare alla carenza di dignità che nasce da minori opportunità – ci dice Francesco – e questa è una sfida per l'individuo, per le sue relazioni, per il suo impegno e, poi, per il potere pubblico, per l’Istituzione democraticamente orientata all’ intervento perequativo.
In tal modo va compreso l’invito contenuto nell’Enciclica a “riproporre la funzione sociale della proprietà”. La proprietà, infatti, è un diritto sì naturale ma secondario, “derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati”.
Tutto ciò ha, evidentemente, conseguenze molto concrete sul funzionamento equo delle società, significa che nessuno può essere escluso, per principio, dalle opportunità necessarie al suo sviluppo integrale.
Non è giusto, ad esempio, che il luogo di nascita o di residenza determini di per sé minori opportunità di vita degna, anche a causa dei privilegi che pochi posseggono a scapito dei diritti dei più, in ragione del tentativo di limitare l’accesso ai pieni diritti di cittadinanza.
Questo significa – per Francesco, dunque - funzione sociale della proprietà: di certo non esproprio ma diffusione che non esclude, che non privilegia qualcuno sui molti, piena cittadinanza!
Non dovrebbero esistere, dunque, minoranze in competizione distruttiva per l’accesso alle scarse risorse ma appartenenza ad un unico ed universale sistema di diritti e doveri.
Questo vuol dire rispetto e integrazione insieme: non uno sterile indigenismo chiuso ma l'apertura conscia di sé al dialogo, alla sintesi che vivifica tutti gli opposti.
L'Enciclica – e l’evento pandemico lo ha sottolineato, purtroppo in negativo - ci ricorda che l'Umanità sta nella comunione originaria del fiato, dello Spirito.
La società universale, il mondo umano non è un Moloch che sorge dall’unione “autoritaria” di particolarismi sottomessi nel sacrificio ma è la Comunione, la fonte identica, il virus che corre di bocca in bocca, che precede di senso ogni particolarismo, ogni confine e che, allo stesso tempo, fonda e determina differenza e peculiarità, che traduce ogni tradizione per il futuro.
La categoria di “Popolo” utilizzata da Francesco, in questo contesto – in opposizione al populismo demagogico - è evidentemente aperta e plurale, sintesi continua del nuovo e del diverso:
“i gruppi populisti chiusi deformano la parola popolo […] la categoria di popolo è aperta. Un popolo, dinamico […] è quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso. Non lo fa negando sé stesso, ma piuttosto con la disposizione ad essere messo in movimento e in discussione, ad essere allargato, arricchito da altri, e in tal modo può evolversi”.
Tale sviluppo di vita secondo libertà, sforzo e creatività, richiede ovviamente l’impegno di tutti – Istituzioni e Società – per vincere quelle iniquità che, nell’esclusione, deformano la parola popolo, la sottomettono all’interesse immediato e di consenso di una falsa autorità.
Lo sviluppo dell’economia globale, l’ accrescimento sostenibile delle potenzialità di ogni regione sono la condizione indispensabile di un’armonica cultura popolare, intesa nel senso plurale dell’apertura.
Certo, afferma Francesco - pur ritenendoli necessari per far fronte alle urgenze - “i piani assistenziali […] si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie”.
Il grande tema, infatti, è il lavoro, non il denaro dell'assistenza:
“ciò che è veramente popolare […] è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze”.
Il tema, quindi, è l'organizzazione di una Società in grado di assicurare ad ogni persona un modo per contribuire al progetto di vita personale e comune.
Si tratta di lottare per politiche che promuovano - nel diritto - diversificazione produttiva e creatività, contro le grandi concentrazioni oligopolistiche che mortificano, nell’abuso di posizione dominante, la creatività imprenditoriale.
Senza fiducia interna, solidarietà reciproca e l’attivismo frutto della cooperazione regolata, il mercato non può espletare pienamente la propria funzione economica e sociale.
Il mercato, infatti, non funziona da sé, non ci sono automatismi e ricette sempre uguali, non esiste un’unica metodologia accettabile, una singola ricetta economica risolutiva; esistono, di contro, percorsi differenti ed egualmente legittimi.
Non c'è una fantomatica mano invisibile che tutto porta in equilibrio scientificamente ma esiste un processo concatenato in cui convergono milioni di piccole e grandi azioni creative, ordinate dalla Legge.
E Francesco lo sottolinea, anche con riferimento al potere internazionale, senz’altro congiunto al potere economico:
“[…] bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato”.
L'impegno a tenere fede agli obblighi sottoscritti (pacta sunt servanda), il rispetto di regole comuni riconosciute e il valore e il significato del perdono, sono l’unica strada per evitare la tentazione – in tutti i campi – di fare ricorso alla forza, piuttosto che alla forza del Diritto.
Tale complessità e pluralità d’approcci, questo sforzo privo di aculei confessionali, di verità precostituite e di ricette buone per ogni occasione; questa via che congiunge, nella società pluralista, consenso a verità, non lascia spazio – anche per i credenti in Cristo – ad uno sterile “fissismo etico”, alla tentazione dell’imposizione di un unico sistema morale, assoluto.
E ciò perché, secondo Papa Francesco, i principi morali fondamentali e universalmente validi – con il valore superiore della dignità inalienabile dell’essere umano - possono dar luogo a diverse applicazioni pratiche, a diverse normative di dettaglio e, proprio per questo, contro la violenza dell’affermazione della propria verità utilizzata come arma contro l’avversario, rimane sempre uno spazio per il Dialogo e per la composizione giuridica di ogni controversia.