Colombo & Co. I ripensamenti ‘a gratis’ su Craxi, vent’anni dopo
Diritto e libertà
L’Espresso, nel numero di questa settimana, che vedrà l’atteso film di Gianni Amelio giungere in sala, esce con: “Essere Craxi”. Titolo di stentoreo richiamo, che parrebbe introdurre pensamenti, se non addirittura pentimenti. E si potrebbe persino guardare come un principio di civilizzazione editoriale, l’occhiello che reca: “a interpretare il leader socialista è un impressionante Pierfrancesco Favino”, anziché “a interpretare il pregiudicato e latitante”: secondo quel lessico di furente legalismo squadristico, che una folta schiera di servizievoli sciacalli ha lungamente maneggiato, e ancora maneggia, sospingendo le due ultime generazioni di italiani verso un nichilismo politico, eticamente dissolutivo e democraticamente suicida. Fino ai Saturnali di questo Capodanno 2020, piegato a celebrare le insegne formalmente autoritarie e tiranniche della Prescrizione Mai. Che significa: Persecuzione Sempre.
Ma se un simile auspicio sui pensamenti e, forse, sui pentimenti, intendesse presentare una decenza e una credibilità minime, dovrebbe rispondere alla domanda di Farinata: “Chi fuor li maggior tui?” Giacchè, sempre usa nelle vicende patrie, e fosse anche solo in quelle della Repubblica (sin dalla sua fondazione ancora guerreggiata), non si dice il cambio di casacca, che è almeno riconoscibile: ma, peggio, l’insidia della panilodia “a gratis”, l’affermazione, per pubbliche dichiarazioni e private posizioni, di voler tornare sui propri passi: avendo però diligentemente cancellato ogni passata orma.
Non constano risposte. Si può allora pubblicare un tale titolo, senza spiegarne (almeno) un altro, congegnato dall’affine quotidiano il 30 Aprile 1993: “Vergogna, assolto Craxi”, proprio esso, invece, vergognoso pronubo della Fiesta all’Hotel Raphael. Si tratta però di un più vasto atteggiarsi, di un più radicato costume. Qualche giorno fa, il dott. Gherardo Colombo, su Il Foglio, sine strepitu (anzi, presentato in chiave magistrale), ha manifestato le sue critiche al rammentato nuovo regime della prescrizione, suggerendo, anch’egli, un intendimento civilizzatore.
D’altra parte, aveva già impreziosito il suo dotto cursus, di un Il Perdono Responsabile, in cui, nell’incedere delle stagioni, era venuto a dubitare della “verità della cella”, a quanto pare oggetto di solo giovanili infatuazioni; e di un La tua Giustizia non è la mia, sorta di minuetto dialogico inscenato col dott. Davigo, dove la parti erano tassonomicamente stabilite, e l’uno impersonava il melanconico negatore, e l’altro, il vivido assertore della giustezza della giustizia penale, o qualcosa del genere. Senza che mai una parola autenticamente libera e innovatrice, circa l’Ordine Giudiziario, il suo ruolo, la sua presenza politica nella vicenda repubblicana, e il suo potere su ciascuno che vive e agisce nello spazio comunitario seguisse, o solo accompagnasse lo spleen pedagogico.
E prima aveva scritto, fra gli altri, Il Vizio della Memoria, a riproporre cupezze paraluterane sulla irredimibile Dirigenza Politica Italiana, macchiata da un Peccato Originale politico: quello stesso a cui ogni retore di scarsi scrupoli ha potuto attingere per le sue maledizioni “senza piano storico”. Specialmente maledicendo, col fantasma di quel “vizio”, la cosiddetta Prima Repubblica; tuttavia, con immediati riverberi su Governi e Maggioranze ritenute maleficamente successorie, evocate sull’abbrivio di indagini in corso d’opera (basti qui accennare alla Notte di Valpurga del Processo IMI-Sir e, memoria nella memoria, l’eco dello sbigottimento di Francesco Misiani, magistrato finito fra le sempre esigue file degli “eretici”: “Forse non hai capito, Ciccio, ma qui non dobbiamo decidere chi è competente, ma chi può fare o non fare le inchieste. A Milano, in questo momento storico irripetibile, si possono fare. Qui a Roma, no”). Mentre bolle neopontificali calavano a scomunicare la legittimazione “morale” di una Commissione Bicamerale (vale a dire, del Parlamento: quello stesso “delegittimato”, e già fatto passare al setaccio di incursioni manu militari), che il ruolo dell’Ordine Giudiziario, Craxi vivo, stava studiando di riformare.
Tali movenze spensieratamente conciliative, vanno allora soppesate proprio sul piano storico: dal quale, per un verso, esse tendono a rimuovere pur vivide ascendenze e paternità; per altro verso, con l’aria di volerne sollecitare l’integrità, tanto lo scuotono e lo battono, da renderlo malleabile materia, con cui plasmare un mitologismo manicheo, e piuttosto rozzamente didascalico.
E così, l’esperienza di sangue e di dolore a confusa matrice politica, vissuta in Italia lungo i due decenni che avrebbero incubato una spettrale “storia politica segreta”, è ormai stabilmente evocata con le fattezze superstiziose di un perenne e mai vinto Diavolo Repubblicano.
Quando invece più razionale, e ragionevole, spiegazione stava, e sta, nei riassetti e negli smottamenti che, nel secondo dopoguerra, segnarono lo stesso Campo Occidentale con guerre guerreggiate, e un’assidua gestione, ben altrimenti cruenta, esosa e limitante, di fatti e uomini della democrazia; riassetti e smottamenti, assai più vasti e profondi, solo al confronto dei quali misurare l’incidenza “storico-politica” di quel nostro sangue, di quei nostri dolori: il loro senso di “costo” e di “passaggio” verso una più compiuta maturazione civile e liberale. Che era stata, e tuttora sarebbe, la più profonda e democraticamente feconda, fra le “Lezioni di Craxi”: a parole, “patrimonio comune”.
Ha prevalso, invece, la coltura di quella malapianta che ci ha condotto ad una organizzazione sociale e politica devota al tossico “tanto peggio, tanto meglio”: alla pubblica responsabilità come una lotteria per lazzari, distillato di un’azione penale “obbligatoriamente irresponsabile”, resa fucina di una Classe Dirigente selezionata al rovescio. Del resto, il ruolo del “giudiziario”, se negli “anni di Craxi” e di quanti supposero di potervisi poi richiamare, rimase almeno parzialmente vivo oggetto politico, da ormai lungo tempo non è più argomento passibile di interpretazioni storiche e istituzionali, cioè, sottoposte al divenire: piuttosto, di definizioni arieggianti autoprofezia, e consegnate al rango di verità messianiche e immutabili.
Si tratta, infatti, di una lunga guerra, oggi vinta. Esso (e torniamo a Colombo), “L’Ordine”, era stato definito sin dal 1983 (pour case, lo stesso anno in cui nacque il Governo Craxi), in un saggio-manifesto: Il ruolo del Giudice in una società che cambia, scritto, si può supporre, in fiduciosa attesa che si desse un qualche “momento storico irripetibile”; vi era progettato quanto, nel corso di questi decenni e sotto i nostri occhi, con assidua tenacia, è stato posto in esecuzione: vale a dire, la “redistribuzione strutturale delle competenze e dei poteri, nella quale l’ordine giudiziario sia chiamato a svolgere permanentemente una funzione nuova”. In sintesi.
Craxi, il suo nome, la sua presenza comunque tenace come quella di Banquo, dovrebbe, infine, dischiudere un qualche discorso “di sinistra”, se non “a sinistra”. Complementare a quelle piroette sul vuoto è dire che all’Italia è sempre mancata una “destra normale”. Non che l’obiezione non meriti tutta la sua considerazione, per lo meno sul piede dell’invettiva più o meno andante: se però, in un contesto realmente aperto alla meditazione, si riproponesse la stessa locuzione sulla “sinistra”, forse il senso di mancamento sarebbe persino più violento.
Craxi con gli stivali nerolucidi; Craxi traditore di psichedeliche “purezze”; Craxi che, nella non periferica lettura di Tonino Tatò (“tutti i compagni della segreteria convengono – a quattrocchi”), segretario-ombra di Enrico Berlinguer, già nel 1978 era “un avventuriero, anzi un avventurista, uno spregiudicato calcolatore del proprio esclusivo tornaconto, un abile maneggione e ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido...”. Così che, ad uno sguardo appena limpido, apparirà a luce meridiana come non sarà Mani Pulite a confermare la bontà di quel giudizio: ma sarà stato quel pregiudizio ad inseguire per quindici anni, e finalmente a conseguire, mediante violazioni e violenze incostituzionali di massa, il suo presente e infausto approdo. Una parola, “Essere Craxi”.