I professionisti dell’antievasione fiscale
Diritto e libertà
Quando definisce la lotta all’evasione fiscale una rivoluzione culturale Giuseppe Conte II° ricorre appropriatamente, se non deliberatamente, al lessico maoista e al concetto di “rieducazione” maoisticamente inteso come forma di repressione politica. Come per Mao i laogai non erano galera, ma inferno, e non servivano a rieducare i reprobi, ma a stabilizzare il regime e a dimostrarne l’implacabile fatalità, allo stesso modo la minaccia delle manette agli evasori non serve a rieducare i “contribuenti che sbagliano”, ma a perpetuare l’errore di un regime fondato sull’arbitrio o sull’abuso in entrambi i lati del rapporto fiscale, quello statale e quello popolare.
Da molti punti di vista, il problema fiscale in Italia è davvero un problema di cattiva pedagogia civile, un capitolo inconfessabile del contratto sociale italiano, una forma surrettizia di spesa pubblica concessa o estorta negli equilibri di una democrazia di scambio fondata sul do ut des di privilegi e immunità. Per decenni, ai tempi delle vacche grasse, l’evasione è stata una delle varianti di una spesa pubblica generosamente interclassista e democratica. Una sorta di elargizione, un illecito tollerato, per la parte viva della società, come le pensioni d’invalidità e le assunzioni ope legis nel settore pubblico lo erano per la parte data per morta o comunque irrecuperabile.
Pensare che i livelli di evasione fiscale italiani siano una somma di trasgressioni soggettive e non il prodotto di dinamiche legate a fatti oggettivi e politicamente determinati (a partire dalla natura e dalla qualità dell’imposizione) è un esercizio di cattiva coscienza, che porta a interpretare in una chiave morale fenomeni sociali che hanno ben poco a che fare con la moralità individuale.
Le “manette agli evasori” appartengono al copione della politica ridotta a una perenne rincorsa tra guardie e ladri, tra buoni e cattivi e dunque al travestimento moralistico della realtà politica. Non è ovviamente un caso che a farsene interprete sia il principe della politica trasformistica, il populista in grisaglia istituzionale, il sovranista avvoltolato nella bandiera europeista, l’avvocato del popolo pronto a farsi giudice dei processi di piazza.
Il carattere astratto di questa discussione è dimostrato dal fatto che essa prescinde dal cuore della questione, cioè dal fatto che alti livelli di evasione in Italia convivono con un’altissima pressione fiscale (che misura le tasse pagate, e non solo dovute, in rapporto al pil). L’Italia è insieme tra i paesi dove si pagano più tasse e tra quelli dove se ne evadono di più. Il recupero dell’evasione non è stato mai utilizzato per riequilibrare il gravame tributario e restituire ai contribuenti leali ciò che si recuperava da quelli sleali, bensì a finanziare, via spesa pubblica, il mercato politico. Aumenta l’imposizione, aumenta l’evasione, aumenta il gettito, aumenta la spesa, aumenta la riscossione e torna a aumentare la spesa. Un circolo vizioso diabolico.
“Pagare tutti per pagare tutti meno” è, in Italia, una truffa ideologica, non un programma politico. Come si concede benignamente, se serve, di non pagare il dovuto, si pretende malignamente, quando occorre, di estorcerne un sovrappiù. Visto che lo scontro è per definizione disuguale e quasi sempre vede prevalere lo Stato per abbandono del match da parte del contribuente, il populismo fiscale è più di quello giudiziario (che almeno impone la difesa del cittadino) un esercizio di potere praticamente assoluto. In più della metà dei casi nel contenzioso vince il contribuente, ma nella generalità dei casi, in particolare per importi ridotti, il contribuente sceglie subito di cedere. Peraltro, in campo fiscale vale il principio antiliberale del solve et repete, per cui prima si paga, poi si discute.
Le questioni di diritto, in campo fiscale, sono ormai declinate unicamente nei termini del “rispetto della legalità” (di qualunque legalità, anche la più assurda e vessatoria) e dunque la lotta all’evasione, come quella alla corruzione, o alla criminalità, o all’immigrazione o a qualunque altro male sociale reale o percepito, è nella sostanza una guerra allo stato di diritto e alle libertà fondamentali dei cittadini in nome di un'esigenza superiore e di un'emergenza permanente. I professionisti dell’antievasione sono come i professionisti dell’antimafia, i campioni di una strategia di potere mascherata da impegno civile. Come la mafia serve a giustificare l’antimafia del perenne stato di eccezione, così l’evasione serve a giustificare un regime di polizia fiscale a strascico: mancano 7 miliardi, prendiamoli dagli evasori!
La lotta all’evasione, in questa logica, assolve a una funzione ideologica, non finanziaria, perfettamente coerente con l’impostazione socio-populista di una coalizione che è alla ricerca disperata dei propri nemici esemplari. Gli evasori ricchi di Conte II° sono come gli invasori poveri di Conte I°. Cambiano i nemici, non cambia la logica del nemico. Serve qualcuno da additare a responsabile dei mali della democrazia, per evitare di guardare ai mali della politica democratica. Anche qui, come dicono i popolarissimi tagliagole del diritto e dei diritti, "la pacchia è finita".