Se c’è un punto su cui tutti, parlando di Unione Europea, sono d’accordo è che le istituzioni continentali siano inadatte a gestire il quadro politico-economico degli ultimi anni. Siamo sicuri, però, che la soluzione giusta sia “più Europa”? C’è chi pensa che, al contrario, sarebbe meglio lasciar perdere l’unione politica.

faraci eurexit sito

L’Europa è a un crocevia. Un po’ tutti, indipendentemente dal colore politico, ritengono che l’assetto del nostro continente sia inadeguato a confrontarsi con le sfide economiche e sociali del mondo di oggi.

Molti sostengono che la ragione per la quale l’Unione Europea sta fallendo è che in realtà non ce n’è abbastanza, cioè che il processo di unione politica non è stato ancora completato. Chi scrive crede, al contrario, che le dinamiche disfunzionali alle quali abbiamo assistito finora siano solamente un assaggio della degenerazione politica e del decadimento civile a cui assisteremmo se il processo di integrazione politica dovesse andare oltre.

Per molti anni negli ambienti italiani “pro-market” la narrazione europeista è stata indubbiamente quella dominante; eppure oggi quel tipo di lettura delle dinamiche politiche ed economiche dell’Europa sembra segnare sempre più il passo.

Una delle argomentazioni più ricorrenti a favore del progetto di unione politica e monetaria è stata che far parte dell’Europa e dell’Eurozona avrebbe reso possibili alcune riforme strutturali che gli italiani non sarebbero riusciti a fare da soli.

Se guardiamo alla realtà delle cose in modo scevro da paraocchi ideologici, tuttavia, ci rendiamo conto che, in realtà, le cose sono andate in modo molto diverso. L’Euro ci ha regalato un “quindicennio perduto” di status quo, durante il quale i bassi tassi di interesse e la percezione di essere ormai dentro una cosa “troppo grande per fallire” hanno diminuito drasticamente l’urgenza di cambiamento e quindi il sostegno a riforme di innovazione politica ed economica.

In Italia, come in altri paesi dell’Europa mediterranea, il paracadute della moneta unica ha incoraggiato a perseguire politiche di spesa pubblica fuori controllo e di accrescimento del debito.

L’unica spinta recente a riforme strutturali si è verificata nel momento in cui, con uno spread oltre i 500 punti, si aveva la sensazione che la “solidarietà europea” potesse venire meno. Tuttavia, con l’acquisto di bond italiani e con il quantitative easing deciso dalla BCE di Draghi, si sono ripristinate quelle condizioni di sospensione della responsabilità nazionale che hanno fatto sì che l’urgenza del cambiamento lasciasse il passo alla rassicurante retorica della ripresa.

Se si sa già che da Francoforte si farà sempre “whatever it takes” a favore dei paesi membri, quale incentivo possono avere le classi politiche nazionali ad implementare politiche impopolari di risanamento? E, nei fatti, molti degli obiettivi a cui l’Italia si era impegnata – ricordiamoci il rapporto del 60% tra debito pubblico e PIL – sono già ampiamente passati in cavalleria; anzi, l’indebitamento italiano viene regolarmente accresciuto ogni anno.

Intendiamoci, non hanno tutti i torti gli europeisti quando sostengono che le ricette che emanano da Bruxelles e da Francoforte sono talora più liberali di quelle perseguite da alcune classi politiche nazionali, specie da quelle del Sud Europa. Ci sono pochi dubbi, ad esempio, che in seno all’Eurogruppo ci fosse più sensatezza di quanta se ne potesse trovare dalle parti di Atene.

La vera questione, però, è che l’Unione Europea non ha ancora dato il suo peggio ed è più pericolosa in prospettiva di quanto lo sia stata fino a questo momento. Quello che di buono è venuto finora dall’UE è dovuto al fatto che la sua struttura è ancora prevalentemente orizzontale e che questo conferisce ai paesi più virtuosi un certo potere negoziale e di verifica sui termini della perequazione tra territori.

Tuttavia l’attuale equilibrio su cui si regge l’Europa non è destinato a durare, perché non è sostenibile politicamente, cioè non raccoglie il consenso dei suoi cittadini. Sono solamente due gli sbocchi possibili. O l’Europa viene ricondotta al suo concetto originale, quello di area di libero scambio, ossia in buona sostanza alla sua configurazione pre-Maastricht, oppure è pressoché inevitabile lo scivolamento verso una più forte unione politica e quindi una vera e propria “democrazia europea”.

Certo, la democrazia, in linea di principio, è un ottimo sistema, ma storicamente ha dimostrato di funzionare in modo efficiente solo se applicata a contesti relativamente piccoli e socialmente omogenei. Quando, tuttavia, il principio della maggioranza è esteso ad ambiti più vasti e disomogenei, i suoi esiti degradano drasticamente. In una democrazia continentale crescerebbe a dismisura la domanda di intermediazione politica per comporre differenze e disuguaglianze attraverso la redistribuzione, la centralizzazione del rischio e del finanziamento della spesa.

Si innescherebbero, in altre parole, devastanti dinamiche di accaparramento e di “sindacalismo territoriale”: da presunto argine alla demagogia, l’Unione diverrebbe il campo di battaglia del populismo più estremo. La tecnocrazia attuale lascerebbe il campo ad una nuova classe politica bisognosa del “consenso” e orientata a politiche di brevissimo periodo.

Se nell’attuale assetto la Germania può permettersi di porre dei paletti alle pretese assistenziali della Grecia, in una democrazia europea le richieste greche (o portoghesi o italiane, etc.) sarebbero prima di tutto “voti”, necessari per governare. Nel momento in cui prevarranno indefinitamente le “ragioni della politica”, non si potrà fare più nulla per impedire la deresponsabilizzazione delle aree assistite, allo stesso modo e per le stesse ragioni per cui oggi, a livello italiano, non è possibile fare assolutamente nulla contro lo sbracamento dei conti della Sicilia, della Calabria o del comune di Roma. Le aree più ricche dell’Europa diventerebbero vacche da mungere, senza alcuna possibilità di autodifesa.

È ragionevole ritenere che alle rivendicazioni del Sud Europa si affiancherebbero anche quelle dei paesi dell’Europa Orientale, che finora sono stati in generale dei modelli di sviluppo economico sano, ma che si trasformerebbero rapidamente in assistiti una volta che si trovassero a disposizione una più sbrigativa via politica al benessere. In altre parole, gli Europei dell’Est si auto- voterebbero l’assegnazione dei soldi dei cittadini tedeschi, che a loro volta probabilmente risponderebbero imponendo ai paesi dell’Europa dell’Est tasse e regolamentazioni “occidentali” per disinnescarne la concorrenza sul mercato del lavoro – in una corsa generalizzata ad utilizzare le istituzioni europee a proprio vantaggio ed a detrimento altrui.

È del tutto illusorio, del resto, pensare che si possa implementare con razionalità ed efficienza qualcosa che assomigli ad un “welfare unico” in un continente in cui il salario medio varia anche di otto volte da paese a paese. Come gestire ad esempio un eventuale sussidio di disoccupazione europeo? Se fosse erogato in modo omogeneo a livello continentale, ai cittadini di vari paesi dell’Europa dell’Est converrebbe smettere immediatamente di lavorare.

Al contrario, se fosse parametrato al salario dei vari paesi, si avrebbe il paradosso che i cittadini bulgari e rumeni si troverebbero a dover lavorare - in condizioni dure e fruendo di servizi scadenti - per mantenere i disoccupati di lusso dell’Europa Occidentale.

Certo, la posizione europeista è che, se saltasse l’Unione Europea, salterebbe anche il mercato unico e che quindi un liberale deve essere pronto ad accettare l’unità politica continentale se non altro come “male necessario”.

Ora, è chiaro che il rischio di contraccolpi in senso protezionista non può essere del tutto escluso, ma al tempo stesso tale rischio non deve essere neppure esagerato. Troppo evidenti sono i vantaggi del libero scambio per ritenere che, senza l’Unione Europea, gli Stati chiuderebbero le frontiere. Si tratterebbe di scelte chiaramente autolesionistiche.

In fondo già adesso i paesi che hanno scelto di rimanere fuori dall’UE sono comunque parte del mercato unico, attraverso strumenti quali l’EFTA e lo Spazio Economico Europeo. Anzi, l’evidenza empirica dimostra come in genere siano proprio gli Stati piccoli ad essere i più globalizzati, perché sono quelli che più difficilmente possono coltivare l’illusione dell’autosufficienza.

C’è, tuttavia, un’argomentazione ancora più decisiva per confutare la visione che la difesa del mercato unico passi dalla difesa dell’Unione Europea. Occorre considerare, infatti, che l’aspetto più prezioso del mercato comune europeo è il suo carattere transnazionale, che fa sì che non sia sottoposto ad un controllo centralizzato. È così che si possono sviluppare quelle dinamiche di concorrenza fiscale e normativa che contribuiscono in maniera fondamentale al rafforzamento della libertà economica e conseguentemente anche alla prosperità.

Se ci si pensa bene, se il Regno Unito oggi appare così appetibile per chi desideri investire o anche semplicemente per chi sia in cerca di una buona occupazione, è proprio perché ha un governo diverso rispetto a quello italiano e quindi ha potuto compiere in questi anni scelte differenti di politica economica. Il giorno in cui la Gran Bretagna fosse semplicemente una provincia governata da Renzi, Hollande e Tsipras che cosa resterebbe della sua attuale attrattività?

Non è vero, pertanto, che l’UE possa rappresentare un baluardo a difesa del libero mercato in Europa. È vero esattamente il contrario: il completamento dell’integrazione politica europea disinnescherebbe totalmente la valenza liberale del mercato comune.

È per questo che essere liberali, oggi, significa necessariamente essere euroscettici.