Il gentismo di governo, paradosso cronico dell'Italia peggiore
Istituzioni ed economia
Dalle nostre parti basta un po' di massa manzoniana con confuse e vaghe istanze di sinistra in piazza per urlare alla nuova, ennesima, Presa della Bastiglia. Ai gilet gialli è obbligatorio guardare con simpatia, ogni manifestante piccolo-borghese è il soggetto di un Delacroix da ammirare e glorificare persino esteticamente, una nuova Marianne, ma coi seni ben coperti dal gilet di sicurezza riflettente che si indossa quando ci si ferma nella corsia di emergenza.
È il populismo inteso come estremizzazione del romanticismo e nella fattispecie della sua sublimazione antilluminista dell'istinto, dell'emotività e del "popolo" depositario di valori nobili, da contrapporre ieri ai privilegi del ceto aristocratico oggi alla cupidigia delle élite (e infatti Manzoni è molto più illuminista che romantico nella descrizione della condotta della massa che assalta i forni: non demonizza il popolo in sé – le cui istanze sono sacrosante –, ma nemmeno lo idealizza, piuttosto sottolinea la sua vulnerabilità agli agit-prop complottisti e alle semplificazioni demagogiche, individuando nel libero mercato, pur "corretto" dal solidarismo cattolico, quelle virtù controintuitive ma nel medio termine risolutive che vengono ignorate a vantaggio delle politiche dirigiste ma nell'immediato popolari del governatore Ferrer).
Fu così con le piazze antiberlusconiane, epifania dell'Italia giusta, moralmente superiore, oppressa dall'edonismo volgare del new money milanese, in realtà greggi radicalizzate dalla tv; con quelle grilline, già proto-fasciste nella loro violenza verbale e delegittimazione – "umana" oltreché politica – degli avversari e della democrazia rappresentativa, ma ben viste dagli intellettuali "giusti", l'altro ieri scandalizzati dall'ascesa del berlusconismo, ieri dall'ipotesi che la "presidenzializzazione" de facto delle democrazie liberali si potesse razionalizzare con una riforma costituzionale, oggi taciturni al cospetto dei due populismi cui hanno spianato la strada (in verità parecchio attivi sul fronte antisalviniano, come se il populismo peronista e antiparlamentarista dei pentastellati fosse meno grave di quello sovranista); i "forconi", perfino i forconi, che non avevano neppure un nome da adulti ma una cabina di regia tutt'altro che raccomandabile, all'inizio godettero delle simpatie dei più, perché si trattava della "gente", oppressa dalla disoccupazione e dalla compressione dei salari, eccetera.
L'establishment intellettuale italiano è tutt'oggi "gramsciano", e cioè perlopiù presidiato da anticapitalisti, antiamericanisti ecc (Diego Fusaro è la caricatura dall'intellettuale-tipo italiano), in realtà feticisti del debito da nazionalizzazioni e spesa corrente – politiche economiche grazie alle quali hanno messo su fortune mobiliari e immobiliari del tutto disinteressati a qualunque solidarietà intergenerazionale –, dunque tutt'altro che keynesiani (magari!), anzi fortemente ostili alle grandi opere perché "pasolinianamente" contrari a qualunque forma urbanizzazione e gentrificazione, meglio le sterpaglie. È dunque prevedibile che gente simile, così mentalmente rigida e autocompiaciuta, individui nella legittimazione istantanea di qualunque piazza vagamente giacobina o anche post-ideologica un riflesso pavloviano retributivo e gratificante: è il popolo contro l'élite… (e pensare che nel pantheon della qui descritta gente che piace c'è anche Gustave Le Bon con il suo "Psicologia delle folle"!).
I gilet gialli vantano l'endorsement di Luigi Di Maio, che esponendosi così tanto (a pochi centimetri dalla redline che avrebbe causato un vero e proprio incidente diplomatico) ha provato che l'indole movimentista del suo partito, ben lungi dall'essere confinata alle avventure esotiche di Alessandro Di Battista o all'icona del grillismo ortodosso ma neutralizzato sul più alto scranno di Montecitorio, Roberto Fico, è viva e lotta insieme a loro, nella fattispecie proprio insieme a Di Maio, nonostante le sue vesti dorotee.
Normalizzatosi nel "male", e cioè nell'elargizione di mance elettorali e nei soldi pubblici e nel deficit intesi come panacea di tutti i mali (a fronte dell'intoccabilità di quelle micro-caste e corporazioni che dal secondo dopoguerra in poi sclerotizzano la nostra economia), l'esecutivo pentastellato è l'ennesima, anche se la più radicale, manifestazione del "gentismo di governo", un paradosso tutto italiano.