Nella totale chiusura sui diritti civili il centrodestra italiano vede l'ultima frontiera dei "valori non negoziabili". Tuttavia, questa visione appare ormai superata dal confronto con il resto del mondo, da una sinistra più laica di quella di qualche anno fa, perfino dalla stessa Chiesa cattolica.

BDV diritti grande

La recente approvazione della legge sul divorzio breve ha dimostrato che in questa legislatura, accanto alle riforme economiche e istituzionali, anche quelle sulle libertà individuali hanno finalmente assunto un'oggettiva centralità istituzionale.

Tutto questo accade dopo anni in cui l'attività (e l'inattività) del Parlamento – tra passi indietro, come sulla fecondazione assistita e la ricerca scientifica, e battute d'arresto, come sulla regolamentazione delle unioni gay – aveva progressivamente disallineato gli standard civili italiani da quelli della generalità dei Paesi avanzati.

Si può ovviamente addebitare il nostro ritardo all'eccessiva e inevitabile contiguità della politica italiana con una Chiesa – prima quella di Giovanni Paolo II e poi quella del suo ispiratore e successore Benedetto XVI – che aveva ancorato il senso della differenza cristiana proprio ai temi dell'etica della vita, della sessualità e della famiglia e rilanciato una sfida politico-culturale improntata alla rigida non negoziabilità dei valori e dei diritti "naturali".

Ma se in Italia per oltre vent'anni su questi temi nulla si è mosso, o si è mosso in direzione contraria a quella degli altri paesi occidentali, oltre ai richiami della CEI ad avere pesato è stata anche, a sinistra, la riluttanza dei "richiamati" a discutere seriamente le conseguenze della propria sofferta, ma passiva obbedienza; nel campo del centro-destra, invece, ha pesato soprattutto, dopo la fine dei sogni e dei propositi di "rivoluzione liberale", la progressiva trasmutazione dell'intransigenza etico-antropologica attorno ai valori e ai diritti naturali in un surrogato di identità politica unificante e in un valore non negoziabile di appartenenza.

Il risultato è che, appena si riapre, come sta avvenendo, il dossier delle riforme sui temi civili, il centro-destra (senza particolari differenze tra quello interno e quello esterno alla maggioranza di governo) torna a richiudersi a riccio attorno a posizioni che, dopo l'avvio del pontificato di Francesco, sembrerebbero sempre meno inderogabili perfino per la Chiesa cattolica, mentre la sinistra – pure quella che marciava disciplinatamente alle parate del Family day – si presenta "liberata" dall'obbligo di conformità e disponibile ad alleanze spregiudicatamente trasversali. È già successo sulle unioni gay al Senato con il M5S e tornerà a succedere.

Il tono e la rappresentazione dello scontro sembrano suggerire che, sui diritti civili, tra destra e sinistra non corra una frontiera, ma una trincea, e che il bipolarismo etico-antropologico sia l'unico asse possibile di una dialettica politico-culturale "forte", altrimenti destinata, sui temi della politica economica, istituzionale e internazionale, a compromessi e negoziazioni bipartisan, senza veri elementi di distinzione. Ma socialmente esiste quest'Italia divisa a metà, incapace di riconoscersi e perfino, moralmente, di rispettarsi? La risposta, per fortuna, è no.

Dal divorzio in poi, gli italiani hanno in gran parte compreso che l'estensione della sfera dei diritti individuali accresce le libertà di tutti e non sacrifica quella di nessuno. Sulle famiglie gay, sulla riproduzione assistita, sul fine vita – per citare i temi che accendono ogni volta una sorta di scontro di civiltà in Parlamento – la società italiana accetta pacificamente anche ciò che la legge non riconosce o tenacemente avversa. E l'accetta anche quando non l'approva. Ben pochi, tra i contrari all'eutanasia, pensavano che fosse legittimo mandare i carabinieri a "salvare Eluana". Non c'è dunque nessuna "guerra di resistenza", perché non c'è nessuna "guerra di occupazione".

La spontanea evoluzione del costume sociale accresce il pluralismo, non l'omologazione. In nessun luogo del mondo il tradizionalismo religioso cristiano, ad esempio, ha l'influenza, anche politica, che esercita nella secolarizzatissima società americana. E non è un caso che proprio dagli Usa, che hanno sperimentato il costoso fallimento della "war on drugs" sulla cannabis, arrivi la prima concreta apertura alla legalizzazione delle droghe leggere, di cui, anche grazie all'intergruppo che ho costituito con oltre un centinaio di parlamentari, si inizierà presto a discutere seriamente anche in Italia.

Una considerazione a parte merita l'uso della cosiddetta "antropologia naturale" o dei valori della tradizione come principio di compatibilità civile e politica delle riforme eticamente sensibili. Cosa è "naturale" e cosa è "tradizionale"? Molti dei principi costitutivi dell'identità e dell'ordinamento giuridico occidentale - pensiamo ad esempio al principio di consenso nelle cure, o all'uguaglianza giuridica delle donne e ai diritti dei minori nella famiglia, per non dire del suffragio universale - sono acquisizioni relativamente recenti, in alcuni casi recentissime.

Sulle relazioni terapeutiche la "tradizione" era il paternalismo medico, per cui il paziente, non potendo capire, non doveva sapere. La "tradizione" imponeva anche che, per salvaguardare l'ordine familiare, le donne venissero private di un'autonoma capacità giuridica e i figli "naturali" fossero trattati in modo del tutto diverso rispetto a quelli "legittimi". E si potrebbe continuare. La natura e la tradizione, sui temi etico-politici, sono concetti dinamici. E proprio la natura e la tradizione dell'Occidente, oggi, coincidono in larga parte con quella cultura dei diritti che il centro-destra italiano (facendo eccezione rispetto agli omologhi schieramenti europei) continua ad avversare in modo così assoluto.