Le unioni civili sono un passo avanti. Ma il matrimonio, perché no?
Diritto e libertà
Sine ira et studio, diceva Tacito, e mai come nel caso della nuova legge sulle unioni civili è necessario ricordarsene. Già, perché, al di là degli argomenti delle tifoserie che hanno avuto tutto il tempo e il modo di sfogarsi sui social (e ancora lo faranno almeno fino al prossimo referendum costituzionale), rimane da applicare una legge che, nel bene e nel male, rappresenta un passaggio storico per il diritto di famiglia e per le famiglie italiane. Tutte, non solo quelle formate da persone dello stesso sesso.
Le parole spese sui tempi e i modi con i quali questo provvedimento è stato approvato diventeranno da domani solo un ricordo utile per alimentare le polemiche o gli studi sul diritto parlamentare. Ma saranno fuorvianti per intendere il significato e le caratteristiche di una legge che la società italiana aspetta da anni.
Credo che sia necessario far notare qualche coincidenza: a parte le date (il 12 maggio è la giornata in cui nel 1974 si svolse il referendum contro il divorzio; il 17 maggio ricorre la giornata mondiale contro l’omo-transfobia), il Parlamento attualmente in carica ha prodotto più riforme (seppur parziali) del diritto di famiglia rispetto a tutti gli altri. Divorzio breve, equiparazione dei figli naturali a quelli legittimi (il cui lavoro istruttorio, va precisato, arriva dalla precedente legislatura) ed ora unioni civili e patti di solidarietà.
Tutte leggi a loro modo importanti, la cui forma tuttavia resta discutibile (non parlo solo dei contenuti, ma della qualità degli articoli approvati, ed è questione seria che investe tutta la produzione legislativa nazionale) e apre contenziosi interpretativi che spesso sfociano in cause legali. E questo, è facile prevederlo, sarà soprattutto vero sulla legge per le unioni civili, i cui motivi di dubbia o controversa interpretazione sono di certo molti, anche di fronte ai benefici offerti.
Si deve ovviamente attendere di vedere cosa accadrà nei prossimi mesi e come verranno scritti i decreti attuativi, ma non credo che siamo lontani dalla realtà nel pronosticare procedimenti giudiziari a non finire, che vivisezioneranno questa legge in ogni sua parte. Col paradosso che i detrattori della legge perché “troppo moderata” si troveranno, loro malgrado, a doverne diventare i più rigorosi difensori.
Però, un paio di considerazioni potrebbero servire per impostare al meglio il lavoro dei prossimi anni, rinviando magari ad altri interventi alcuni passaggi più tecnici che sarebbe utile chiarire, per capire fino in fondo la portata sulla vita delle persone che questa legge comporta.
Innanzitutto credo sia necessario sottolineare che quelli elencati sopra sono provvedimenti che hanno in comune la volontà di modernizzare il Paese e di avvicinare il nostro ordinamento giuridico in materia di diritto di famiglia alla realtà dei fatti e delle famiglie, così come sono e vivono oggi in Italia.
Spesso ci siamo lamentati, a ragione, dei ritardi e degli strabismi di un sistema politico che non riesce a regolamentare l’esistente ma è capace, sposando una visione ideologica a discapito di altre, di imporre divieti arbitrari e consuetudini "collettive" anche dove ad essere in questione sono libertà e scelte individuali. Alla semplice domanda sul perché le persone omosessuali non abbiano il diritto di veder regolamentati i propri rapporti di famiglia (con i conseguenti doveri) si è sempre risposto con visioni ideologiche della famiglia stessa e delle conseguenze dell’orientamento sessuale degli individui. Senza rendersi conto che in questo modo si calpestava un diritto fondamentale e primario, che è quello all’uguaglianza.
Come spesso ho ripetuto (e non da solo) ai tanti che sono contrari alla legge sulle unioni civili e ai tantissimi che la salutano come una vera e propria rivoluzione, ecco ancora una volta la mia semplice domanda: perché? Perché alle persone omosessuali si riconosce uno status diverso da quelle eterosessuali in materia di diritto di famiglia? In cosa le si ritiene così diverse da dover avere un istituto giuridico “dedicato”? La legge consente queste differenze, ma ci chiede, appunto, di motivarle.
I migliori fra noi rispondono a questa domanda ammiccando, facendo spallucce e dicendo, senza vergogna, che questo è il prezzo che si paga per la presenza del Vaticano in Italia. Ma che la realtà è molto più avanti della legge.
La realtà, invece, è che alla base delle scelte di questa legge, a detta degli stessi che l’hanno proposta e approvata, non esistono motivazioni giuridiche, scientifiche, etiche o sociali che non siano di natura ideologica. È accettabile tutto ciò? È sufficiente aggrapparci alla “novità” di essere finalmente riusciti a rompere un muro di silenzio e pregiudizio a qualunque forma di legalizzazione e regolamentazione, che da anni ci perseguitava, per dimenticare che la legge approvata è essa stessa in palese violazione del principio di uguaglianza?
Credo inoltre che si sottovaluti il peso che i ritardi, che dobbiamo alle resistenze vaticane, hanno avuto in tutti questi anni sullo sviluppo del paese: qualche studio esiste in merito, ma non è sufficiente per documentarli. Gli esempi potrebbero essere molti, e non sono figli dell’anticlericalismo di maniera di cui i militanti della causa omosessuale sono spesso, a torto, accusati.
In secondo luogo: una, a mio avviso, cattiva interpretazione della tradizione liberale considera queste tematiche secondarie. Un po’ come facevano i marxisti negli anni ’70 quando parlavano di “sovrastruttura borghese” a proposito di donne, omosessualità, e via elencando. In realtà abbiamo capito da molto tempo che lo Stato deve intervenire il meno possibile nella vita delle persone e nella loro libertà, ma deve stabilire regole precise in base alle quali questa libertà si possa concretamente e responsabilmente esercitare. Non tocca allo Stato invece tracciarne i confini morali, o limitarla quando deroga da un uso presuntamente "tradizionale".
Su questo tema, segnatamente sui diritti e doveri di famiglia e sui cosiddetti diritti sociali, è come se i liberali italiani avessero fatto passi indietro lasciando che questi divenissero patrimonio quasi esclusivo della sinistra. Tutto frutto della prevalenza del principio di uguaglianza rispetto alle libertà individuali? Colpa del conservatorismo intrinseco (ahimé) del liberalismo nostrano?
La disastrata compagine dei liberali italiani (uso il termine nel più ampio significato possibile) non può permettersi di continuare a fare spallucce su questi temi: libertà, diritti e uguaglianza sono intrinsecamente legati e sarebbe impossibile (ideologico, direi) pensare il contrario.
C’è molto lavoro da fare: per difendere questa nuova legge, per andare verso il matrimonio egualitario e la riforma delle adozioni, per far diventare i liberali italiani protagonisti, e non solo comparse, di questo processo. Ne avremmo bisogno tutti, noi e la società.