Tutto quello che bisognerebbe sapere sulla marijuana, sulla base dell'enorme mole di dati scientifici a disposizione. Dai rischi reali alle opportunità terapeutiche, dai costi economici e sociali alla percezione dell'opinione pubblica, per andare oltre un dibattito che raramente riesce a prescindere dai luoghi comuni.

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Il 2014 potrebbe essere l’anno della marijuana. Tanto per cominciare è iniziato in maniera particolare. A mezzanotte del 31 dicembre il Colorado è diventato uno dei primi stati al mondo a legalizzare completamente (o quasi completamente) il consumo di marijuana per uso ricreativo. Quando i negozi di marijuana hanno aperto alle otto di mattina c’erano già file di centinaia di clienti in attesa. Un negoziante ha raccontato che sembrava di essere davanti al botteghino di un concerto dei Pink Floyd. Poche settimane prima, a dicembre, anche l’Uruguay ha percorso la stessa strada ed oggi la marijuana è legalmente prodotta e venduta dallo stato. Al momento sono decine i paesi nel mondo, compresi diversi stati americani, che stanno per votare leggi che depenalizzano o legalizzano il consumo di marijuana.

Il 2014, hanno scritto in molti, sarà un anno di grandi sfide. Il business della marijuana, ad esempio, è ancora rischioso. Il motto di chi vuole investire capitali nella cannabis è “don’t touch the leaf”, non toccare la foglia. Significa evitare di investire nella coltivazione e nella vendita diretta della marijuana, perché non c’è ancora fiducia che la legislazione rimanga liberale. Ma il business dell’indotto e dei prodotti legati al consumo della marijuana ha già cominciato ad attirare uomini d’affari che normalmente bazzicano Wall Street. Come ha detto Brendan Kennedy, ex manager di una società di investimenti che ora dirige un piccolo fondo di investimento che si occupa di start-up legate all’indotto della marijuana: «Quando tutti cercano l’oro è un buon momento per entrare nel business delle pale e dei picconi».

Le cose sembrano destinate a proseguire su questa strada. Nel gennaio del 2014, i lobbysti della legalizzazione si sono improvvisamente trovati ad avere un alleato straordinario quando, durante un’intervista al settimanale New Yorker, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha dichiarato che la marijuana è meno pericolosa dell’alcol. In risposta a questa intervista, il 13 febbraio, 17 parlamentari americani hanno chiesto ad Obama di rimuovere la marijuana dalle lista di droghe di primo livello, quella che include l’eroina e le metamfetamine (ma non la cocaina).

Fino a qualche anno fa l’Italia sembrava saldamente avviata sul cammino opposto a quello intrapreso dagli Stati Uniti. Nel 2006 è entrata in vigore la cosiddetta Fini-Giovanardi, una legge che eliminava la distinzione tra droghe leggere e pesanti e, più in generale, inaspriva le pene per il possesso e lo spaccio di marijuana. Le cose, però, sembra che stiano cambiando anche da noi. All’inizio del 2014 la Corte Costituzionale ha dichiarato decaduta la Fini-Giovanardi. La legge venne approvata con un decreto legge, ma, secondo la corte, senza i requisiti di necessità e urgenza necessari per questo tipo di procedura. Il problema, quindi, era la forma e non la sostanza. Nonostante questo le proteste dei proibizionisti sono state piuttosto flebili e sembra improbabile che l’attuale governo tenti di ripristinarla seguendo la procedura corretta. Il fronte favorevole alla legalizzazione, invece, ha preso coraggio dopo la sentenza. Alcune voci isolate dalla Lega Nord (un partito normalmente di “legge ed ordine”) hanno chiesto una liberalizzazione, così come ha fatto pochi giorni dopo Nichi Vendola, segretario di SEL. Il 20 febbraio l’oncologo Umberto Veronesi ha firmato un appello per la liberalizzazione sul quotidiano la Repubblica, suscitando un certo dibattito. Sembra improbabile al momento che si possa andare molto oltre. Una delle componenti essenziali dell’attuale maggioranza, il Nuovo Centro Destra, ha criticato le parole di Veronesi e lo stesso presidente del Consiglio, Matteo Renzi, è piuttosto tiepido sul fronte della legalizzazione. La timidezza, però, non sembra essere giustificata: le ragioni mediche sembrano poche, di certo non ce ne sono di fiscali o finanziarie (anzi) e - come vedremo tra poco - sembra di poter dire che non ci siano nemmeno motivi elettorali.

 

Cosa sappiamo della marijuana

In Italia il dibattito sulla liberalizzazione/legalizzazione della marijuana è piuttosto anemico e soltanto negli ultimi mesi esponenti politici di primo piano hanno affrontato l’argomento. Negli Stati Uniti, invece, si parla molto di marijuana. La cannabis è un argomento dei talk show del mattino e quasi tutti i comici, i politici e i commentatori hanno un’opinione in materia e non la nascondono al pubblico. Una delle affermazioni che i “proibizionisti” fanno più spesso in questi dibattiti è che non conosciamo ancora abbastanza bene la marijuana per poterla legalizzare con sicurezza. Molti scienziati, però, non sono d’accordo con questa affermazione. Nel gennaio 2014, sulla rivista Salon, l’attivista ed esperto Paul Armentano faceva notare che sul database PubMed Central, gestito dal governo americano, sono pubblicati più di 20 mila studi sugli effetti della marijuana. Per fare un paragone, su un analgesico come l’idrocone (alla base del Vicodin del Dr. House), che si vende con ricetta in farmacia, sono pubblicati appena 600 studi. Sul paracetamolo, uno dei più diffusi analgesici al mondo, gli studi sono poco meno di 12 mila. Gli studi sulla marijuana sono aumentati notevolmente negli ultimi anni. Diecimila studi sono stati pubblicati soltanto negli ultimi 5 anni, 1.600 dei quali soltanto nel 2013.

Uno degli eventi più notevoli nel dibattito americano degli ultimi anni è stata la “conversione” di Sanjay Gupta, un giornalista della CNN e medico piuttosto celebre che era sempre rimasto su posizioni molto critiche a proposito della legalizzazione. Nell’agosto 2013 Gupta ha pubblicato un articolo dal titolo “Perchè ho cambiato idea sul’erba”. Secondo Gupta alcuni medici, come lui, si sono fatti ingannare leggendo troppi pochi studi, tralasciando il lavoro di molti laboratori fuori dagli Stati Uniti o dando per buoni vecchi stereotipi ampiamente smentiti. Gupta, in particolare, si è occupato a lungo dell’uso della marijuana per scopi terapeutici ed è stato contrario per molti anni. La sua opinione, ha scritto nell’articolo, è stata influenzata dal fatto che soltanto il 6 per cento delle migliaia e migliaia di studi che sono stati fatti sulla marijuana si sono occupati dei suoi effetti terapeutici: il 94 per cento si occupavano dei danni, creando una specie di distorsione nella percezione dei rischi e delle opportunità della marijuana. Come raccontavano Lynn Zymmer e John P. Morgan in Marijuana, i miti e i fatti, uno dei classici della ricerca sulla marijuana:

Negli ultimi 30 anni, ricercatori finanziati dal governo federale hanno studiato ogni possibile modo in cui la marijuana può essere dannosa per gli individui e per la società. Ricercatori hanno cercato prove di crimini indotti dalla marijuana, di danni psicologi e di danni alla “motivazione”. Hanno studiato gli effetti della marijuana sull'abilità psicomotoria, sulle funzioni intellettive e comportamentali. Hanno scrutato i collegamenti tra marijuana e uso di altre droghe. Hanno cercato tracce di danni biologici, spesso somminstrando grosse dosi di THC (il principale ingrediente psicoattivo della marijuana) ad animali e introducendo THC in colture di cellule umane. Presi tutti insieme, questi studi hanno prodotto un corpo altamente tecnico di letteratura sulla marijuana che si estende in diverse discipline scientifiche.

Questa mole notevole di studi ha rivelato, scrive Armentano, che la marijuana e i suoi principi attivi, conosciuti come cannabinoidi, “sono composti terapeutici e ricreativi relativamente sicuri ed efficaci. A differenza di alcool e di numerosi farmaci, i cannabinoidi sono praticamente non tossici per le cellule e gli organi e non sono in grado di causare una overdose fatale”. Secondo la letteratura medica disponibile al momento (qui potete leggere un esempio) fino al 2010 non sono mai stati riscontrati casi di overdose fatali dovuti al consumo di marijuana. Questo rappresenta una differenza sostanziale rispetto agli oppiacei (che si trovano in commercio in numerosi farmaci e sono ampiamente utilizzati in medicina) e all’etanolo (che è legale e può essere acquistato al supermercato sottoforma di alcolici). Entrambi possono causare overdose fatali e, spesso, lo fanno. Soltanto nel 2010 22 mila persone sono morte negli Stati Uniti a causa di overdose da farmaci legali a base d’oppio (tra questi farmaci c’è proprio l’idrocone, che come abbiamo visto è stato oggetto di ricerche circa 30 volte meno della marijuana).

Il peso di questa enorme letteratura scientifica ha spinto diversi ricercatori a fare affermazioni piuttosto secche ultimamente, almeno per quanto riguarda l’uso terapeutico della marijuana. Ad esempio uno studio dell’Università della California, approvato dalla Food and drug admnistration americana, si concludeva con queste parole: “Basandosi sulle prove attualmente a disposizione la classificazione [della marijuana] come droga di primo livello non è sostenibile, non è accurato dire che la cannabis non ha valore medico o che non ci sono informazioni a sufficienza sulla sua sicurezza”.

Pur con qualche difficoltà e lentezza, in moltissimi paesi del mondo l’uso terapeutico della cannabis è stato accettato. È così in gran parte d’Europa e in 20 stati degli Stati Uniti, dove però l’uso terapeutico non è consentito a livello federale. Anche in Italia l’uso terapeutico è consentito, anche se attraverso un sistema piuttosto limitato e farraginoso. Il servizio sanitario nazionale rimborsa completamente un farmaco a base di THC, il principio attivo della marijuana, ma soltanto per i malati di sclerosi multipla. I medici possono prescrivere lo stesso farmaco anche ad altri malati, ma in questi casi non è previsto un rimborso (il farmaco, uno spray orale, costa circa 600 euro e procurarselo non è semplice visto che la pratica deve passare dalla ASL, alle regione e quindi direttamente al ministero che acquista il farmaco all’estero).

 

L’uso ricreativo

Come abbiamo visto, le obiezioni contro la marijuana negli ultimi anni si sono basate sulla teoria del “non la conosciamo abbastanza” oppure si sono appigliate ad alcuni studi medici che sottolineano alcuni rischi che può portare il suo consumo (ci torneremo tra poco). Si tratta, in gran parte dei casi, di obiezioni ragionevoli e basate su studi scientifici. Non è stato sempre così ed è abbastanza interessante ricordare quali erano le motivazioni che in passato sono state usate per proibirne il consumo e la vendita.

Nel loro libro, Zymmer e Morgan fanno una breve rassegna del dibattito sulla marijuana negli ultimi 70 anni e ricordano che gran parte della legislazione proibizionista fu messa in atto su pressione delle forze dell’ordine e della magistratura, più che della comunità scientifica. Dagli anni ‘30 fino agli ‘50 i rapporti di numerose agenzie per la lotta alla droga in giro per il mondo sostenevano che fino al 50 per cento del totale dei crimini erano direttamente causati dalla marijuana. I drogati di marijuana erano definiti un “problema di ordine pubblico” mentre la cannabis era considerata un fattore che contribuiva alla “promiscuità”. Negli anni ‘60 la marijuana venne accusata di essere “demotivazionale” e di portare i giovani all’apatia (non che non sia così, ma è uno stato che in genere svanisce dopo qualche ora). Negli anni ‘70 diversi scienziati hanno accusato la marijuana di provocare gravi danni biologici, come alterazioni dei cromosomi, immunodeficienze e danni permanenti al cervello. Ovviamente, in tutto questo periodo, la marijuana venne accusata di essere “il primo gradino verso l’eroina”. Sembra quasi superfluo ricordare che nella letteratura scientifica non si trova una sola prova di queste affermazioni. Per 80 anni la legislazione sulla marijuana si è basata su affermazioni prive di qualunque valore scientifico. Ovviamente questo non significa che assumere marijuana è come farsi una passeggiata in montagna.

Tanto per cominciare la marijuana può causare dipendenza. Secondo diversi studi, circa il 9/10 per cento degli adulti che fanno uso di cannabinoidi sviluppano una qualche forma di dipendenza. Per fare un paragone, la cocaina causa dipendenza nel 20 per cento degli adulti che l’assumono, l’eroina nel 25 per cento. Ancora peggiore è il tabacco, che causa dipendenza nel 30 per cento degli adulti che lo assumono. Anche la dipendenza da marijuana, però, va inserita nelle sue giuste proporzioni. Scrive ancora Gupta nel suo articolo: “Ci sono prove evidenti che in alcune persone la marijuana può causare sintomi da astinenza come insonnia, ansia e nausea. Anche considerando questo è difficile dire che esiste un alto potenziale per abusarne. I sintomi fisici della dipendenza da marijuana non sono nulla in confronto a quelli delle altre droghe. Ho osservato i sintomi da astinenza da alcol e possono essere rischiosi per la vita”.

Un altro degli effetti su cui si sono concentrati i “nuovi critici” è la possibilità che la marijuana aumenti il rischio di schizofrenia e altre patologie psicotiche in persone che hanno già una predisposizione genetica per questo tipo di malattie. Nonostante la mole di studi compiuti su questo fronte, non ci sono ancora prove definitive di una correlazione tra uso di marijuana e insorgenza di patologie psicotiche o schizofreniche. Ad esempio, un recente studio dell’università di Harvard sostiene che non ci sono collegamenti, anche se un forte consumo di cannabinoidi può influenzare le modalità e le gravità di una psicosi. Per dare un’idea di cosa significhi in ambito scientifico la mancanza di certezza tra l’uso di una sostanza e l’insorgenza di una patologia basta pensare che l’OMS inserisce il caffè tra le sostanze potenzialmente cancerogene (ma non risultano, al momento, Paesi che per prevenire questo rischio abbiano vietato il caffè).

Il dibattito sui danni e gli effetti terapeutici della marijuana si intreccia quando si parla di cannabinoidi e tumori. Anche qui, nonostante la mole di ricerche, non ci sono conclusioni definitive. La marijuana potenzialmente ha due effetti nella lotta ai tumori. Il primo è oramai accertato, come ha spiegato Gupta e diversi degli studi che abbiamo citato: la marijuana ha un effetto analgesico e stimolante per l’appetito e questo può essere molto utile non solo per i malati di tumore, ma per molte altre patologie molto gravi. C’è anche un secondo effetto, più diretto: alcuni studi sembrano indicare anche che la marijuana ha un effetto antitumorale nei ratti a cui viene somministrato THC puro (sul sito del Centro antitumore del governo americano si trovano molti riferimenti). D’altro canto fumare marijuana probabilmente aumenta il rischio di cancro ai polmoni - per questo motivo la marijuana per uso medico viene somministrata sotto forma di capsule, spray oppure vaporizzata. Il fumo di marijuana, infatti, contiene numerosi degli agenti cancerogeni che sono presenti anche nel tabacco, i cui effetti cancerogeni sono dimostrati aldilà di ogni ragionevole dubbio. Dal punto di vista chimico, una sigaretta non è molto diversa da una canna, con la differenza che nell’una si trova la nicotina e nell’altra il THC.

È più difficile, però, capire se la marijuana presenta anche rischi aggiuntivi di cancro ai polmoni e questo perché la maggior parte dei fumatori di marijuana fuma anche tabacco, quindi è difficile trovare campioni adeguati per studiare l’effetto della marijuana. Inoltre, visto che la maggior parte dei consumatori assume marijuana fumandola è difficile stimare se il suo principio attivo, il THC, possa causare il cancro anche se assunto in altro modo. Al momento non ci sono studi che indicano il THC come sostanza cancerogena.

 

L’opinione pubblica

A partire dagli anni ‘70, mentre la comunità scientifica faceva sentire la sua voce sempre più forte, le critiche più improbabili al consumo di marijuana sono lentamente scomparse dai media. Oggi è quasi impossibile sentire qualcuno parlare di alterazioni cromosomiche o reati causati dal consumo di marijuana (anche se altre balle, come la relazione tra consumo di marijuana e il passaggio a droghe più pesanti, sono ancora diffuse). Le critiche, come abbiamo visto, si sono fatte più prudenti e scientifiche e parte del biasimo sociale verso il consumo di marijuana è scomparso. In modo parallelo, l’opinione pubblica ha cambiato il suo atteggiamento nei confronti della legalizzazione della marijuana. Secondo i principali istituti di sondaggi, la percentuale degli americani favorevoli alla legalizzazione/liberalizzazione è costantemente cresciuto negli ultimi 30 anni. Nel 2013, il Pew Reserch Center, una delle più importanti società di sondaggi degli Stati Uniti, ha pubblicato uno studio secondo il quale, per la prima volta nella storia del paese la maggioranza degli americani (il 52 per cento) è diventata favorevole alla legalizzazione. In Italia, secondo le ultime rilevazioni della SWG, la maggioranza della popolazione è favorevole a una legalizzazione o ad una depenalizzazione del consumo di marijuana. In particolare: il 37 per cento degli intervistati è favorevole a punire il consumo di marijuana come quello delle droghe pesanti. Il 25 per cento è favorevole a una vera e propria legalizzazione, mentre il 21 per cento è favorevole a una depenalizzazione.

In maniera apparentemente paradossale questa apertura dell'opinione pubblica non ha portato ad un significativo incremento del consumo di marijuana. Negli Stati Uniti la percentuale di giovani che dichiara di aver fatto uso di marijuana nel mese precedente è crollata da circa il 40 per cento del 1978 fino a poco più del 20 per cento nel 2011, anche se in questo periodo ci sono state diverse oscillazioni. Dopo un minimo del 10 per cento, toccato nel 1991, questa percentuale è tornata ad aumentare fino al 1999. Per 10 anni quindi è tornato a scendere, mentre dal 2009 ad oggi è di nuovo in aumento. In Italia e nel resto d’Europa il consumo di marijuana ha seguito un andamento simile: il livello più basso è stato raggiunto nei primi anni 90, il consumo è tornato ad aumentare fino al 2003, è tornato a calare fino al 2011 quando ha subito una nuova, lieve crescita. A questo bisogna aggiungere il fatto che non ci sono prove che una legalizzazione porterà ad un aumento del consumo di marijuana (qui e qui trovate alcune raccolte di dati).

 

I costi economici e sociali

Colorado, Uruguay e stato di Washington rappresentano, insieme all’Olanda, un buon esperimento per capire quanto è possibile che lo Stato guadagni legalizzando o liberalizzando e tassando il consumo di marijuana. I primi numeri parziali pubblicati dallo stato del Colorado mostrano che la raccolta delle imposte sul tabacco è molto superiore alle aspettattive. Il Colorado, con 5 milioni di abitanti e una tassa sulla marijuana per uso ricreativo del 12,5 per cento, si aspetta di incassare 610 milioni di dollari nel 2014. Ai vantaggi fiscali della legalizzazione andrebbero poi aggiunti anche i risparmi che si possono ottenere dal taglio dei fondi destinati alla lotta alla droga. Ad esempio, negli Stati Uniti, dove si calcola che gran parte delle droghe consumate sia rappresentato da cannabinoidi, la DEA costa ogni anno 2,5 miliardi di dollari.

In Italia una ricerca simile è stata fatta dall’università La Sapienza, secondo cui i risparmi nella lotta alla marijuana potrebbero essere di 6 miliardi all’anno (se ne parla anche qui). Difficile immaginare che questi soldi verrebbero automaticamente trasferiti nel bilancio pubblico. Un poliziotto che non è più impiegato nella lotta alla marijuana deve comunque venire pagato. Il suo lavoro, però, potrebbe essere utilizzato in altri settori, generando così una maggiore efficienza del sistema in generale.