logo editorialePur mantenendo un atteggiamento di rispettoso garantismo e anzi sperando nell'innocenza della persona in questione (il gusto sadico per il tintinnio di manette non ci appartiene), sarebbe ingenuo sottovalutare la portata e il significato dell'inchiesta che ha condotto agli arresti domiciliari Carolina Girasole, ex sindaco del comune calabrese di Isola Capo Rizzuto e donna simbolo dell'antimafia, secondo l'accusa colpevole di essere stata eletta avvalendosi di un sistema di voto di scambio architettato con la locale cosca degli Arena.

Nonostante le molte minacce e aggressioni ricevute negli anni quel che emergerebbe da microspie e intercettazioni ambientali è ad opinione dei magistrati un traffico di favori reciproci tra la Girasole e gli esponenti del clan degli Arena che sarebbero stati determinanti per la sua elezione nel 2008. Tra questi favori, spiccherebbe quello di avere di fatto restituito al clan, a prezzo irrisorio, un terreno agricolo coltivato a finocchi, precedentemente confiscato alla famiglia stessa. A palesare la sottomissione dell'ex amministratrice nei confronti della 'ndrangheta, inoltre, figurerebbero alcune intercettazioni tra gli esponenti del clan, tra cui il boss Nicola Arena – anch'esso in manette – che conterrebbero affermazioni inquietanti, come "a questa possiamo chiedere tutto, l'abbiamo messa noi".

Le porte del carcere si sono aperte, tra gli altri, anche per il marito della Girasole, accusato di aver richiesto esplicitamente sostegno elettorale al clan per favorire l'elezione della consorte. Inoltre, secondo quanto emerge dall'inchiesta della Guardia di Finanza, gli episodi di delinquenza che hanno contribuito a fare della Girasole un'eroina antimafia sarebbero opera di criminalità comune e non ritorsioni dei clan locali. Addirittura, nel caso del furto dei computer del Municipio, il ritrovamento, avvenuto alcuni giorni dopo con una telefonata anonima ai carabinieri, sarebbe dovuto proprio all'interessamento di un uomo degli Arena.

Eppure, Carolina Girasole ha sfilato nei cortei dell'indignazione, ha presieduto convegni sulla gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata – ironia della sorte, proprio sui terreni degli Arena. Tanto è bastato a farne un'eroina, un'icona. Nessuno poteva sapere, si dirà, e – ancora più importante – le sentenze non devono emetterle i giornali, ma i tribunali a tempo debito. Nulla di definitivo fino a prova contraria, dunque, e se dovesse arrivare un'assoluzione con formula piena sarebbe una ragione in più per opporsi all'ormai sistematico ricorso alla carcerazione preventiva e un bene per tutti: per l'ex sindaco, per la città di Isola Capo Rizzuto e soprattutto per coloro che ripongono fiducia in chi rischia tutto – in primo luogo la vita – per combattere il terrore.

Qualora, però, dovesse arrivare una condanna, confermata fino al terzo grado, dovremmo tutti – anzitutto chi sull'antimafia vera o presunta fonda interi quotidiani o costruisce trasmissioni televisive – riflettere sul fatto che in un paese dove la figura dell'eroe è spesso inflazionata per ragioni mediatiche o ideologiche, si rischia di finire con pochi veri benefattori e tante, troppe, icone di argilla, che si sciolgono come neve al sole e gettano dubbi e discredito su una battaglia culturale di vitale importanza.

Quello di Carolina Girasole è una vicenda aperta, così come lo è quella di Massimo Ciancimino, ma da entrambe dovremmo imparare – in ogni caso e a prescindere dal loro esito – che gli eroi confezionati spesso fanno bene alle vendite e agli ascolti ma non alla battaglia per la legalità e, soprattutto, che dietro l'ingenuità dei buoni sentimenti si celano spesso le intenzioni meno nobili. Per quanto piacerebbe crederlo – soprattutto a chi ama vendere alcuni personaggi come tali – non tutti si chiamano Giovanni Falcone o Paolo Borsellino.