La trattativa c'è, perché non si vede. Oggi in scena al Quirinale
Editoriale
Il vantaggio dei complotti è che, non essendo dimostrabili, non sono falsificabili. Quindi sono veri, perché non possono essere dimostrati falsi. E chi non se ne rassegna, è perché è parte della macchinazione o vittima dell'inganno dei macchinatori.
La trattativa Stato-mafia appartiene a questo genere di fatti d'opinione di cui l'immaginario degli italiani si è pasciuto e soddisfatto per spiegare l'inspiegabile o per espiare la non espiabile vergogna nazionale della mafia politica come parte del gioco democratico. La cosiddetta trattativa è una teoria generosamente vendicatrice delle ragioni dei buoni morti ammazzati, prima sacrificati allo stragismo dei corleonesi e poi vilipesi dall'accordo segreto dello Stato con i loro assassini.
È un modo per rimettere didascalicamente in ordine le ragioni e i torti dei buoni e dei cattivi, secondo una logica verosimile e edificante, essendo nella logica dei professionisti dell'antimafia verosimile e edificante qualunque rappresentazione del male come sodalizio organico tra stato illegale e stato legale, cioè tra mafia e politica. Anche se, anzi proprio perché il sodalizio non è dimostrabile, visto che l'indimostrabilità certifica l'inconfessabile e diabolica perfezione del fatto.
Come per tutti i complotti che si rispettino, anche per la trattativa Stato-mafia non si cerca affatto di suffragare un'ipotesi di accusa, ma di difendere una tesi logica dal travisamento di fatti illogici e indimostrabili e dunque irrilevanti, per l'accertamento del falso e del vero. Conso, in un Paese allo sbando, revoca un po' di 41bis, ma per nessun mammasantissima della mafia stragista? Che importa? Ecco l'impronta digitale della trattativa. Ecco il pizzino delle istituzioni. Non è più logico prestare fede all'idea che ci fosse un ordine ferreo e negoziato nei passi avanti e indietro di un governo in balia degli eventi, piuttosto che accettare l'esistenza di una illogica e drammatica confusione?
La teoria della trattativa, anche se non dimostra niente, spiega tutto in modo semplice e esemplare: i politici collusi avevano paura di essere ammazzati dai mafiosi cui avevano promesso, ma non garantito l'impunità, quelli non collusi temevano di non potere arginare lo stragismo mafioso, i carabinieri di Mori fecero il doppio gioco che fu loro comandato, Borsellino fu ammazzato perché si oppose a questo cedimento... Cosa c'è di incredibile in questa ricostruzione? Appunto, niente.
Si potrebbe obiettare che i due testimoni su cui si regge il processo sono uno, Massimo Ciancimino, un calunniatore professionale e l'altro, Giovanni Brusca, un collaboratore rateale, che ricorda le cose quando servono alla (sua) causa e che ha tirato fuori il leggendario papello al momento giusto. Ma è anche questa una obiezione troppo normale, visto che tra la verità dell'antimafia e la memoria interessata della mafia pentita c'è un legame storicamente indissolubile e inestricabile, che si è fatto troppe volte giustizia per essere sciolto o revocato in dubbio in un caso così sensibile.
A questa verità preventiva ha reso omaggio oggi la Corte che è salita al Quirinale per chiedere al Capo dello Stato di dare conto dei pensieri di un suo consigliere morto di crepacuore per essere stato mascariato non dalla mafia, ma dall'antimafia. Il segreto di Napolitano sui segreti di D'Ambrosio nel segreto della trattativa. Sotto i segreti, forse non c'è niente, ma ci si può mettere quello che si vuole. La trattativa c'è, perché non si vede.