Soumaila Sacko 611

Don Pino De Masi ha la voce stanca e le parole che escono a fatica: è appena rientrato a casa, dopo aver passato la notte nella tendopoli di San Ferdinando, dove viveva - prima di essere ucciso da una fucilata, il 2 giugno scorso - Soumaila Sacko, il migrante maliano di 29 anni, attivista sindacale dell’Usb. Movente e autore: ancora ignoti. Don Pino è il referente di Libera per la Piana di Gioia Tauro: è un uomo concreto, le analisi non fanno per lui, specie se diventano lo sport nazionale all’indomani di una tragedia ampiamente annunciata.

A lui interessano i fatti. Perché don Pino è sì al fianco dei migranti, ma è anche a servizio dei cittadini calabresi, in questa terra che definisce “degli uomini senza” - senza diritti, senza legalità, senza lavoro: “E guardi che gli ‘uomini senza’ sono sia quelli che vivevano nella tendopoli che i cittadini calabresi”. Quando, sullo stesso territorio, a essere “senza” sono in tanti, allora le soluzioni ai problemi o sono “di sistema” oppure non sono.

Siamo a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia. È dal 2010 - anno a partire dal quale le tendopoli si sono avvicendate senza sosta - che don Pino ripete: “Il problema immigrati non esula dal problema delle mafie perché è la ‘ndrangheta che gestisce tutto ed è sempre la criminalità organizzata che stabilisce i movimenti, le paghe ed il compenso dei caporali”. Oggi però, dopo otto anni, aggiunge nuovi elementi a quella riflessione: “Disagio chiama altro disagio e l’aria che si respira, in questo momento nel Paese, è pericolosa”. I codici della politica sono diventati astiosi e le “parole di concordia” a cui invitava tutti il presidente Mattarella, porgendo gli auguri al governo Conte, sono più che mai distanti.

Don Pino non si piega, tuttavia, all’inutile rito dell’attribuzione di responsabilità, puntuale, all’indomani di ogni tragedia, ma dopo anni di abbandono, di risposte amministrative episodiche, di continui rinvii, una precisa responsabilità politica esiste ed è tangibile. Ce lo ricordano, ogni volta, le esplosioni di rabbia, le rivolte, gli “scioperi” di questa gente che vive in condizioni sub-umane, sfruttata e relegata in un ghetto che si estende in piena zona industriale: “La tendopoli fu autorizzata dalla prefettura perché rispondeva alle esigenze di non accanire troppo la popolazione e contemporaneamente ai bisogni dei migranti, che così non sarebbero stati troppo distanti da un centro abitato”, sottolinea De Masi.

È chiaro che i primi a non voler vivere in queste condizioni sono i migranti stessi: nessuno di loro vorrebbe lavorare in nero ed essere sfruttato, nessuno vuole vivere senza acqua né luce. “Da anni”, dice don Pino, “si rimanda un progetto di abitazione diffusa che speriamo possa finalmente partire: tutti sanno bene che non è possibile concentrare in pochi metri quadrati di terra un numero così alto di persone”. Il dato è che la baraccopoli - sorta dopo l’ultimo incendio di gennaio che ha semidistrutto l’agglomerato di tende e baracche, e in cui morì anche una donna - è “il regno dell’illegalità: dentro vige un regime mafioso, c’è una guerra tra bande di etnia diversa, ed è naturale che in queste condizioni di degrado la ndrangheta c’entri e come”.

Tutti i migranti che abitano nella tendopoli e negli accampamenti sorti intorno per rispondere ai bisogni della popolazione residente - oggi si contano circa 700 persone mentre quest’inverno sono arrivate a 2000 - fanno “qualche giornata alla settimana di lavoro nei campi”. Riescono a raccogliere “non più di 25 euro al giorno” (da cui occorre sottrarre le spese per il trasporto e la percentuale che va ai caporali) ma ovviamente con questi soldi non riescono a campare. È così nata una “microeconomia” all’interno dell’accampamento che la polizia ha scoraggiato, ma che continua a esistere in nero”.

Sul territorio esistono circa 15/20mila piccoli proprietari terrieri ed è molto faticoso, dice don Pino De Masi, riuscire ad avviare un dialogo con tutti per ripristinare una situazione di legalità diffusa: ognuno lavora per sè. E i controlli? Ci sono ma sono troppo pochi: “Gli ispettori del lavoro” - specie dopo l’ultima riforma, ndr - in italia, sono pochi”. Eppure qualcosa si muove. Ma è dura.

Sempre nella Piana di Gioia Tauro, lavora la cooperativa sociale "Valle del Marro-Libera Terra”, nata “per combattere la mentalità mafiosa”, nel 2004, da un progetto di Libera: ha iniziato a coltivare 120 ettari di terreni (clementine e kiwi), confiscati alla ‘ndrangheta. La cooperativa ha fatto un esperimento: ha messo insieme un gruppo di agricoltori, pagando le arance 30-35 centesimi al chilo e vendendole a Unicoop Firenze. Un circolo virtuoso che crea un vantaggio anche alla manodopera, dunque agli stessi braccianti. “Se si riuscisse a creare lavoro, onesto e ben remunerato, questo sarebbe motore di sviluppo economico e anche di legalità”, dice don Pino. Leggiamo che la cooperativa, nel frattempo, ha subito negli ultimi mesi un’escalation di atti intimidatori, che mette a dura prova il suo lavoro: furti, danneggiamenti che sono veri e propri sabotaggi per “compromettere il raccolto e scoraggiare l’impegno per il riutilizzo sociale dei beni confiscati”.

Un’altra azienda della Piana, attiva a Polistena, Ecoplan- premiata insieme alla toscana Revet Recycling, per il progetto innovativo “Teniamo banco” che introduce negli arredi scolastici i piani in “Ecomat”, un materiale riciclato e riciclabile al 100% all’infinito - già in gravi difficoltà finanziarie, ha subito diversi furti nel tempo: l’ultimo poche settimane fa - che ha portato via l’intero gruppo elettrogeno - le ha dato il colpo fatale. “Servirebbe”, dicono da Ecoplan, “un partner strategico che abbiamo già individuato ma tutto va a rilento e noi siamo fermi”.

D’altra parte, serve molto coraggio a investire in una terra di cui lo scrittore calabrese Corrado Alvaro, all’inizio di un viaggio che lo avrebbe portato a Torino per insegnare, sul proprio diario scriveva: “[…] è anche troppo quello che sono riuscito a combinare con tutti gli inconvenienti con cui sono partito: meridionale, povero, scrittore”.

@iladonatio