Cicciomessere calcolatrice sito

Una recente vicissitudine di uno dei più ‘movimentati’ reati della materia penale in ambito economico, il c.d. falso in bilancio, offre l’occasione per indagare, sotto il profilo tecnico, il rapporto tra potere legislativo e potere giudiziario in Italia.

Il reato, il cui vero nome è ‘False comunicazioni sociali’, è posto a presidio:
- della trasparenza gestionale: infatti, almeno in teoria, impedire la creazione di ‘fondi neri’ dovrebbe comportare l’indisponibilità di provviste destinate alla corruzione o all’evasione; in pratica, le inchieste recenti pare dimostrino che a ciò si ovvia attraverso operazioni sofisticate e composite i cui singoli limitati spezzoni sono tutti legittimi, per cui arduo è cogliere e ricostruire il disegno d’insieme (e ancor più arduo condannare).
- del principio di affidamento e tutela dei soci e degli investitori: solo se si dispone di informazioni economiche corrette si possono effettuare scelte razionali da azionista (e simili) o da investitore.

Un reato così nevralgico, nell’Italia degli ultimi due decenni, nonché in quella attuale, non poteva non avere una vita avventurosa: la madre di tutte le leggi ad personam berlusconiane fu, infatti, la riforma del ‘falso in bilancio’ nel 2002. I fiumi d’inchiostro e le mobilitazioni di piazza credo siano ancora nella memoria di tutti: sulla base di quella riforma l’allora Cavaliere venne assolto in Cassazione nei processi SME e ALL IBERIAN perché ‘il fatto non era più previsto dalla legge come reato’ mentre in primo grado era stato condannato a 7 anni di reclusione.

Tale riforma era stata, di fatto, una depenalizzazione: la fattispecie di cui all’art. 2621 c.c. (‘False comunicazioni sociali’) diveniva ipotesi contravvenzionale con previsione dell’arresto sino a 1 anno e 6 mesi, a fronte della precedente reclusione da 1 a 5 anni. Inoltre, si creava una nuova fattispecie, stavolta delittuosa: l’art. 2622 c.c. che prima reprimeva la ‘Divulgazione di notizie sociali riservate’, ora riguardava le ‘False comunicazioni sociali in danno della società, dei soci, o dei creditori’ con pena della reclusione da 6 mesi a 3 anni.

Ma soprattutto: si introducevano le fatidiche e controverse ‘soglie di punibilità’, ovvero quei limiti entro i quali le condotte descritte nella fattispecie sussistevano ma non erano punibili (‘si può delinquere, ma solo poco’ era la battuta che circolava allora): le falsità o omissioni non dovevano determinare un’alterazione dei risultati societari superiore al 5% degli utili, o una variazione superiore all’1% del patrimonio societario. E, si badi bene, in ogni caso non erano punibili i falsi in bilancio relativi a ‘fatti materiali’ esposti ma non corrispondenti al vero laddove essi fossero frutto di ‘valutazioni’, condotte dall’imprenditore, tali da discostarsi per meno del 10% da quelle in teoria corrette.

La sostanziale depenalizzazione della fattispecie non venne rivista da nessuno dei governi successivi: centrosinistra (2006-2008), di nuovo centrodestra (2009-2011), tecnici (2011-2013), centrosinistra a guida Letta (2013), si guardarono bene dall’intervenire, pur essendo pacifico e unanimemente riconosciuto che per tale aspetto l’Italia si discostava enormemente dagli standard internazionali riferiti al diritto penale dell’economia: nel 2002, mentre il Governo italiano in pieno scandalo Parmalat e Cirio ricorreva ad un ‘diritto penale minimo’ sul tema, gli U.S.A approvavano il ‘Public Company Accounting Reform and Investor Protection Act and Investor Protection Act’, con previsione di pene assai severe per i manager truffaldini (era appena divampato lo scandalo Enron).

Il giudizio tecnico espresso su quella riforma da molti degli addetti ai lavori, magistratura in primis, non fu particolarmente positivo (per usare un eufemismo). E anche sotto il profilo politico fu evidente che si stava assistendo ad una degenerazione del rapporto Legislativo / Giudiziario, uno scadimento in meri rapporti di forza in cui, costituzionalmente e per logica, il secondo non poteva che soccombere, dovendo applicare, appunto, la legge.

L’oscillazione del pendolo era in quegli anni nel suo estremo iper-politico con leggi fatte e disfatte per interessi smaccatamente di parte.

Solo con la legge del 27 maggio 2015 n. 69, recante ‘Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio’, si è re-introdotta una normativa efficace ispirata a princìpi di tutela degli investitori e del libero mercato, con la previsione di due fattispecie delittuose ampliative del campo d’intervento e con pene e struttura giuridica assai interessanti che vedremo più avanti in dettaglio.

Ma proprio questa riforma, verso cui nessuno tra gli addetti ai lavori aveva sino ad oggi mosso sostanziali critiche, essendosi consolidato un diffuso giudizio positivo, ha dato origine ad una nuova occasione di ‘scontro’ tra Legislativo e Giudiziario: si tratta di un conflitto sottile, tecnicissimo, probabilmente di assai minore interesse per il cittadino comune rispetto alle famose e mediatiche ‘leggi ad personam’, eppure politicamente non irrilevante ad avviso di chi scrive.

Il pendolo, infatti, ha compiuto ormai il suo viaggio di ritorno ed è oggi nel suo estremo opposto, quello giudiziario.

La vicenda è questa: il Legislatore, nell’esercizio della sua funzione, con la predetta L.69/15 ha riformato il reato di false comunicazioni sociali, escludendo dal testo della norma sia il riferimento alle ‘valutazioni’, sia il riferimento alle ‘soglie di punibilità’. La dottrina maggioritaria, gli addetti ai lavori, e una buona parte della giurisprudenza di Cassazione, da tale soppressione hanno inteso che le ‘valutazioni’ non dovessero più avere rilevanza per l’individuazione del ‘falso’, dato che nella norma non vi si fa (più) alcun riferimento. Tuttavia, le Sezioni Unite Penali della Cassazione hanno deciso diversamente.

Con la riforma, infatti, è insorto un contrasto interno alla Sezione V sul punto dell’intervenuta abrogazione o meno del falso valutativo: aveva concluso per l’intervenuta abrogazione della fattispecie Cass. pen. Sez. V, Sent. 33774/15 (curiosità: la sentenza assolve da tale imputazione il Sig. Luigi Crespi, il sondaggista di Berlusconi negli anni ’90); aveva concluso per la persistenza della fattispecie Cass. pen. Sez. V, Sent. n. 890/16; si era di nuovo espressa per l’abrogazione Cass. pen. Sez. V, Sent. n.6916/16.

La questione controversa rimessa alle Sezioni Unite Penali, quindi, era: ‘Se, ai fini della configurabilità del delitto di false comunicazioni sociali, abbia tuttora rilevanza il falso ‘valutativo’, pur dopo la riforma di cui alla legge n.69 del 2015’.

Con sentenza resa il 31 marzo 2016, di cui si attende il deposito delle motivazioni, le Sezioni Unite (come si legge dall’Informazione Provvisoria n.7 del 31 marzo 2016 a firma del Presidente Dott. Canzio) hanno disposto che: ‘Sussiste il delitto di false comunicazioni sociali, con riguardo alla esposizione o alla omissione di fatti oggetto di ‘valutazione’, se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l'agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni.

In questa sede non si vuole più di tanto argomentare se si tratta di decisione giusta o sbagliata dal punto di vista tecnico, si tratta invece di condurre qualche riflessione sul rapporto tra potere legislativo e potere giudiziario in una materia così sensibile come il diritto penale. Un campo dove, per intenderci, la giurisprudenza, e non altri, già ha creato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa sulla cui base si conducono processi e si spiccano condanne alla privazione della libertà personale per decenni.

Ma, per meglio illustrare le finali considerazioni ‘politiche’, è necessario condurre una sommaria analisi tecnica del dato normativo.
Confidando che internet consenta al lettore di recuperare agevolmente, e quindi leggere, l’art. 2621 c.c. e l’art. 2622 c.c. nella loro versione integrale ed attuale, qui per motivi di spazio ci si limita a evidenziare che la vecchia norma (art. 2621 c.c.) nella parte di interesse recitava: ’gli amministratori […] i quali, con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, […] espongono fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni […] sono puniti con l’arresto fino a due anni[…]’.

Il nuovo art. 2621 c.c. invece riporta: ‘[…]gli amministratori […]i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci […] consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore, sono puniti con la pena della reclusione da uno a cinque anni’.

La rivoluzione (rispetto alla normativa del 2002) è evidente. Con riguardo all’art. 2621 c.c.:
a) Il reato di false comunicazioni sociali torna ad essere un delitto che interessa tutte le imprese cui la legge impone ‘comunicazioni’ sulla propria situazione; in particolare l’art. 2621 disciplina il tema con riguardo alle imprese non quotate, mentre l’art. 2622 si riferisce alle imprese quotate.
b) La fattispecie, dismessa la veste di contravvenzione, torna ad avere la pena della reclusione sino ai 5 anni. Ciò comporta: la procedibilità d’ufficio (non sono più i soci o i creditori a poter valutare se agire o meno in sede penale contro i manager dell’impresa alla luce dei danni fatti, ma compete alla Procura della Repubblica valutare se vi è il pericolo che la condotta posta in essere arrechi un danno, e quindi agire in omaggio al principio di obbligatorietà dell’azione penale); un allungamento assai significativo dei termini della prescrizione; la concreta possibilità di ingresso in carcere. Ma attenzione: non trattandosi di reati contro la P.A., la pena ‘sino ai 5 anni di reclusione’ non consente l’utilizzo delle intercettazioni. Intercettazioni consentite invece nel caso dell’art. 2622 c.c.: per le false comunicazioni sociali in società quotate la pena balza da un minimo di tre anni a un massimo di 8 anni di reclusione, con utilizzabilità delle intercettazioni prima non consentite.
c) La natura di delitto e la formulazione dell’avverbio ‘consapevolmente’, unita al ‘fine di procurare per sé o per altri un ingiusto profitto’, depone inequivocabilmente per il dolo specifico ma con esclusione della possibilità del dolo eventuale.
d) La condotta omissiva punita non fa più riferimento genericamente alla mancata comunicazione di ‘informazioni’, ma ha ad oggetto espressamente ‘fatti materiali rilevanti’.
e) Le condotte che determinano il falso devono essere ‘concretamente idonee’ ad indurre ‘altri’ in errore: si tratta di una previsione apparentemente di garanzia per quegli imputati che compiono un falso così marginale da essere ininfluente sulla realtà degli eventi e dei rapporti; in realtà l’estrema genericità determina una discrezionalità in capo al giudicante che non è difficile prevedere fonte di aspre contese nelle aule giudiziarie.
f) L’innovazione decisamente più importante: non sono più menzionate le ‘valutazioni’ quali possibili fonti di falso e di conseguenza scompaiono i previgenti commi 3 e 4 in cui erano dettate le soglie di non punibilità con le famose percentuali di tolleranza (in particolare per le valutazioni la specifica soglia del 10%).

In pratica: la normativa dettata dal Legislatore in tema di false comunicazioni sociali torna ad avere una significativa efficacia deterrente; i magistrati inquirenti tornano ad avere strumenti efficaci di indagine e di repressione; la platea dei risparmiatori e dei soggetti economici di sistema vede di nuovo, e meglio, presidiati i terreni della ‘trasparenza’ e dell’ ‘affidabilità’ delle comunicazioni societarie sulla cui base determinare le proprie scelte d’investimento; gli imprenditori, stando alla lettera della legge, non sono più esposti all’alea dell’incriminazione per mere valutazioni soggettive tipiche dell’attività d’impresa operante sul libero mercato.

Ma, come detto, proprio su tale ultimo punto, legato al c.d. falso ‘valutativo’, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione ha ritenuto altrimenti.
Per sommi capi, le tesi che si sono confrontate sono le seguenti:

A] Il Collegio della Cassazione Sezione V, presieduto dal Dott. Alfredo LOMBARDI, con sentenza n. 33774/15 (poi ribadita da Cass. pen. sez. V n. 6916/16) ha sostenuto che il ‘falso valutativo’ ha cessato di avere rilievo a seguito dell’intervenuta riforma, essendo intervenuta una parziale abrogatio criminis pur in un contesto di ampliamento dell’operatività e aggravamento della fattispecie penale.
Il nucleo argomentativo della soluzione si basava rigorosamente sull’art.12 preleggi che recita: ‘Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.’
In altri termini: vi è stata abrogazione del c.d. falso valutativo poiché il dato testuale degli articoli riformati non offre più alcun riferimento alle ‘valutazioni’ e alle soglie percentuali entro cui tali valutazioni non erano punibili; e inoltre poiché l’intenzione del legislatore, nell’eliminare il dato letterale, era quella di tornare alla fattispecie ante 2002, come evidenziato dal mantenimento, ad es. nell’art. 2638 c.c., della rilevanza delle c.d. ‘valutazioni’ ove l’interesse tutelato è la pubblica vigilanza.
Dice la Cassazione 33774/15: ‘Una lettura ancorata al canone interpretativo ‘ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit’ non può trascurare la circostanza dell'inserimento di modifiche normative in un sistema che riguarda la rilevanza penale delle attività societarie con una non giustificata differenziazione dell'estensione della condotta tipizzata in paralleli ambiti operativi, quali sono quelli degli artt. 2621 e 2622 cod. civ., da una parte, e art. 2638 cod. civ., dall'altra, norme che, sebbene tutelino beni giuridici diversi, sono tutte finalizzate a sanzionare la frode nell'adempimento dei doveri informativi.

B] Tesi diametralmente opposta per il Collegio della medesima Sez. V penale presieduto dal Dott. Aniello NAPPI, la quale, con sentenza n. 890/16, ha affermato che il ‘falso valutativo’ permane quale fattispecie incriminatoria nel nostro ordinamento pur dopo la novella legislativa.

Gli argomenti alla base di tale conclusione muovono anch’essi formalmente dall’art. 12 preleggi c.c., ma procedono in termini alquanto elastici: in particolare, dice questa Cassazione, si deve badare a ricostruire ‘la voluntas legis quale obiettivizzata e ‘storicizzata’ nel testo vigente, da ricostruire anche sul piano sistematico - nel contesto normativo di riferimento - senza che possano assumere alcun valore le contingenti intenzioni del legislatore di turno’. Attirata l’attenzione su quel ‘di turno’ riferito al Legislatore, deve essere evidenziato che tale enunciato ermeneutico altro non significa, se non che il senso fatto proprio dalle parole deve essere tale da conformarsi a una volontà legislativa ‘sistematica’, astratta, riferibile allo Stato in quanto tale, per cui l’interprete deve riconoscere che, essendo intenzione da anni del ‘sistema legislativo’ di reprimere le condotte che alterino trasparenza e libero mercato unitamente alla corruzione, allora il falso valutativo deve rimanere reato pur non essendovi più un letterale riferimento nella nuova norma introdotta dal legislatore ‘di turno’ (che quindi, pare di capire, ad avviso della Cassazione si è semplicemente sbagliato a non mantenere il riferimento, o anche a toglierlo senza specificare che il reato resta…).

Nel dettaglio, la qualità argomentativa è di assoluto pregio, ma per ovvi motivi di spazio e leggibilità ci si limita a riassumere così: il ‘falso’, riportato nelle comunicazioni sociali, non è sempre e solo un mero ‘fatto’ fenomenico inveritiero (es: dico che ho costruito un capannone sostenendo tot costi, ma non è vero), ma è il più delle volte una rappresentazione di ‘grandezze’, solitamente denaro, che non corrisponde alle ‘valutazioni’ corrette delle entità sottoposte a stima (es: ho fatture da riscuotere per € 1000 nei confronti di svariate società, e indico in bilancio tutti i € 1000 come credito: se a posteriori si verifica che di quei 1000 potevo recuperare e ho recuperato solo 300, allora ho commesso un falso…).

Inoltre, la dizione ‘materiali’ riferita ai fatti non è una semplice ripetizione, ma trae origine dal simile termine anglosassone usato in ambito contabile, ‘material’, che significa ‘essenziale’; infine, l’aggettivo ‘rilevanti’ riferito ai ‘fatti materiali’, non è una mera endiadi ma sta a indicare tutto ciò che, se conosciuto e preso in considerazione da parte del terzo investitore o creditore, potrebbe determinare scelte diverse rispetto a quelle prese sulla base dell’assenza di tali informazioni o con (tali) informazioni sbagliate.

Quindi: anche le stime di poste di bilancio, pur essendo valutazioni, possono dare origine a ‘fatti’ (rappresentazioni di grandezze tali da poterne dichiarare la verità o falsità), ‘materiali’ (cioè riferiti a elementi essenziali della vita societaria) ‘rilevanti’ (incidenti, ove conosciuti, sulle scelte dei terzi) che siano non corrispondenti al vero. Naturalmente ciò che è frutto di una valutazione soggettiva difficilmente può essere definito ‘vero’ o ‘falso’, e questo anche senza essere epistemologi.

E infatti, per superare il punto, in effetti superabile, con una successiva sentenza (n.6916/16), la Cassazione ha ancora precisato che pur essendo intervenuta la abrogatio criminis, permane la punibilità di tutte quelle valutazioni che si discostano dal vero non in quanto frutto di considerazioni opinabili di stretta competenza dell’imprenditore ma in quanto conseguenti a (volutamente) non ortodosse applicazioni di quei criteri di valutazione dettati dal codice per la redazione dei bilanci.
Lo scontro tra le tesi abrogative e quella mantenitiva ha avuto la sua definizione con le Sezioni Unite del 31 marzo 2016 (attendiamo le motivazioni tra un paio di mesi): il falso in bilancio valutativo resta nel nostro ordinamento ancorché in esso non se ne ravvisi alcuna traccia letterale.

Considerazioni: in primo luogo, deve riconoscersi che nel caso di specie il potere giudiziario, laddove ha ritenuto esservi una lacuna nell’ordinamento penale, ancorché frutto di valutazioni discrezionali del Legislatore (cioè: è stata proprio una sua scelta, frutto di ponderate valutazioni appunto), non si è fatto scrupolo di intervenire in via interpretativa per mantenere una fattispecie appena letteralmente soppressa.

La considerazione circa l’opportunità oggettiva di colmare tale lacuna (nei limiti tecnici che di seguito si diranno) non toglie nulla alla gravità sistematica di una simile dottrina d’azione. Il compito di creare le fattispecie penali è riservato espressamente alla legge, non alla giurisprudenza: il principio di legalità intende infatti presidiare e garantire, tra le altre cose, anche il modus formativo delle norme in quanto processo di elaborazione e sintesi di posizioni in senso lato ‘politiche’, frutto di sensibilità e riferimenti culturali e sociali molto diversi tra loro, che entrano in equilibrio attraverso la volontà formalizzata dal Legislatore nella legge.

L’equilibrio valoriale, di merito e di metodo, contenuto in una qualunque norma penale approvata, può ovviamente essere ottimo, pessimo o a fatica passabile: chiunque è legittimato a esprimere giudizi sulla legge; ma nessuno, se non il Legislatore, può intervenire sulla medesima creando o abrogando fattispecie penali. La causa di tale ‘esclusiva’ riservata al Legislatore - sembra banale dirlo ma forse, in questi anni, non lo è - è quella di essere eletto in democratiche votazioni e di rappresentare quindi la popolazione. La stessa caratteristica ovviamente non appartiene al potere giudiziario.

Non può quindi affatto essere condivisa la tesi che vorrebbe in posizione subordinata il ‘legislatore di turno come la Cassazione sent. n.890/16 ebbe a definire il legislatore della L.69/2015, sia per i retroesposti argomenti di sistema, sia per un ulteriore motivo squisitamente tecnico: a garanzia dell’individuo, nei confronti dello Stato e in particolare della Magistratura, vige in Italia il ‘principio di tipicità’ della fattispecie penale; tra altre cose fondamentali, detto principio impone di mettere in grado chiunque di sapere in anticipo se una qualunque azione gli è vietata o no, e in che termini lo sia.

Il reato che qui ci occupa, come risultante dalla pronuncia delle Sezioni Unite, rischia invece di allontanarsi dalla tipicità per rimettere alla mera discrezionalità dei Giudici il giudizio di verità o falsità su ‘valutazioni’ che dovrebbero essere per lo più appannaggio (poco sindacabile) dell’imprenditore. È del tutto dubbio che uno qualunque dei soggetti attivi del reato (amministratori, sindaci, dirigenti preposti, etc) possa con certezza stabilire a priori quale sua condotta, o meglio valutazione imprenditoriale, verrebbe sanzionata: è bene rammentare, infatti, che per la compilazione del bilancio societario, oltre ai criteri ‘oggettivi’ normativamente dettati, vi sono (appunto) criteri di valutazione soggettiva (si dia una lettura all’art.2426 c.c. che prevede criteri alternativi tra loro, ad es. i nn. 1 e 4; nonché stime basate sul calcolo delle probabilità, ad es. con riferimento ai crediti da riscuotere; nonché stime in gran parte discrezionali come ad es. quelle sull’avviamento).

E allora, due conclusioni: sotto il profilo tecnico, se proprio a sistema non si può fare a meno di mantenere la previsione del falso ‘valutativo’ in bilancio, questo deve essere almeno rispettoso del principio di tipicità, stabilendo un criterio che dia certezza di cosa sia vietato e cosa no (le tanto vituperate ‘soglie’ servivano in effetti a dare una veste di tipicità a una fattispecie ‘valutativa’): ad esempio inserendo in norma l’indicazione della punibilità di condotte di falso valutativo solo laddove il soggetto agente si sia consapevolmente e dimostrabilmente distaccato dal criterio di stima che lui stesso aveva indicato come quello utilizzato tra i vari a sua disposizione (non si rendono obbligate le scelte dei criteri valutativi per il bilancio: ma quando ‘tu’ imprenditore ne scegli uno, e me lo illustri nella nota integrativa, vieni punito se ‘consapevolmente’ ti discosti da quello stesso criterio).

Ma qui interviene la seconda e ultima conclusione: ogni intervento normativo, anche il più di buon senso come quello testé illustrato cui chi scrive aderisce, spetta però solo ed esclusivamente al potere legislativo e a nessun altro. Non riconoscere che solo il Legislatore possa mantenere in vita o abrogare una fattispecie penale significa minare in radice le basi dello stato liberale di diritto.

Il ruolo di supplenza che da quarant’anni esercita la magistratura nei confronti del potere legislativo deve trovare un limite almeno nel campo penale, in quanto costituzionalmente presidiato: ed è ben vero ed evidente che è ed è stata l’infima qualità del potere politico ad aver determinato questa situazione; ma si dubita che strappi sempre più profondi e sempre più tollerati (in quanto ignorati, si spera) ai princìpi dello stato di diritto da parte della Magistratura possano davvero mutare in meglio gli standard civili, politici e economici del Paese. Quelli giuridici sicuramente no.