Ddl Cirinnà: visioni del matrimonio a confronto
Diritto e libertà
Il disegno di legge Cirinnà, in discussione in questi giorni, sembra destinato ad infrangere per la prima volta in Italia il tabù politico delle unioni gay, superando, almeno in parte, le discriminazione normative di cui si sentono vittime tante coppie omosessuali.
Eppure dietro alla questione dell’uguaglianza dei diritti per gli omosessuali e, più in generale dietro a tutte le questioni legate al diritto familiare, hanno forma due diverse concezioni della vita e della società che non si può commettere la superficialità di confondere. Da una parte il punto di vista liberale che muove dal primato dei diritti individuali; dall’altro quello di sinistra fondato su visioni “a priori” di ingegneria sociale. La dinamica del processo parlamentare della nuova legge è ben rappresentativa dell’alterità di questi due approcci e del prevalere, non inaspettato, del secondo.
Per chi condivida una visione liberale la chiave interpretativa principale della battaglia per i diritti dei gay è il principio della neutralità delle istituzioni e dell’uguaglianza dei cittadini, in quanto individui, di fronte alla legge. In quest’ottica la valenza legale del genere sessuale è di per sé un orpello superfluo ed a maggior ragione non è sostenibile che un contratto che va a legare due individui sia condizionato a tale fattore. La strada più lineare sarebbe l’estensione tout court dell’attuale istituto matrimoniale alle coppie gay. I diritti dei gay non necessitano di altro se non semplicemente di rendere gender neutral le istituzioni che già ci sono e, del resto, per un liberale meno istituzioni ci sono meglio è. Insomma, per i liberali la soluzione alla questione delle unioni gay non richiede che si aggiungano sovrastrutture, ma semplicemente la rimozione di un vincolo – quello che si possa sposare solo una persona del sesso opposto.
A sinistra, invece, si vedono le cose in modo diverso, perché è l’obiettivo di fondo ad essere diverso. In effetti, il liberale vuole affermare il principio della libertà individuale, ma non una qualche visione finale di società “giusta”. Lasciamo gli uomini liberi e poi sarà quello che sarà, cioè quello che le libere scelte degli individui determineranno. Chi è di sinistra, invece, identifica un modello “giusto e morale” di società a cui tendere e quindi si propone di utilizzare le leggi per guidare gli uomini verso tale obiettivo e correggere quelle che di fronte ai suoi occhi sono deviazioni e storture. E’ evidente che per chi operi all’interno di tale ottica la rimozione di vincoli non è sufficiente, ma serve invece l’azione attiva del diritto positivo come strumento per orientare la società.
Questa visione costruttivista e statalista è particolarmente evidente nella parte del DLL Cirinnà che si concentra sulla “disciplina della convivenze”, materia scorrelata rispetto alla questione dei diritti dei gay in senso proprio e che invece ha a che vedere con l’idea che tutte le formazioni familiari, anche quelle spontanee, debbano essere ricondotte sotto la “tutela” della regolamentazione. Lo scenario appare ancora in evoluzione, ma il Titolo II della legge Cirinnà pare contemplare un riconoscimento “oggettivo” della convivenza eterosessuale o omosessuale, attribuendo ad essa conseguenze legali, indipendentemente dal consenso della coppia. Paradossalmente tantissime persone che hanno scelto volontariamente la libertà della convivenza come alternativa al matrimonio si troveranno imbrigliate in una serie di responsabilità legali reciproche, incluso l’obbligo di mantenimento.
Nei fatti un simile passaggio cambia completamente i connotati della libera convivenza e va ad influire inevitabilmente sulle stesse dinamiche di coppia. E’ chiaro che la minaccia di far scattare gli alimenti potrà essere utilizzata come arma di pressione, se non addirittura di ricatto, per non far terminare una relazione. Ed è chiaro che in caso di rottura si apre la strada all’utilizzo dei dispositivi della legge come strumento di vendetta e di ritorsione. La fine di una convivenza diventerà più simile alla fine di un matrimonio; sarà più lunga, dolorosa e costosa e porterà con sé tutto quello strascico di veleni e di colpi bassi che oggi accompagna gli iter di separazione e di divorzio.
Chi auspica questo tipo di sviluppo parte dal tradizionale presupposto secondo cui in assenza di regolamentazione non è possibile garantire la parte più debole all’interno della relazione, che poi è la traduzione nell’ambito del diritto familiare della tradizionale posizione marxista in economia, secondo la quale in assenza di regolamentazione e di controllo statale la libera interazione economica induce lo sfruttamento e l’oppressione del lavoratore.
In realtà introducendo la variabile statale all’interno dei rapporti familiari, non si diminuiscono, ma al contrario si accrescono le problematiche legate alle rotture coppia, come ben mostra il livello brutale che in molti casi raggiungono le cause di separazione, dove ogni appiglio di legge è utilizzato per massimizzare il danno all’ex-coniuge. L’attuale modello di separazione, divorzio ed affidamento fa solamente la fortuna di giudici, avvocati ed assistenti sociali, a spesa della vita e dei diritti di tanti persone. E’ un modello che ha fallito e che è assurdo pensare addirittura di estendere ulteriormente.
In definitiva, quello che serve oggi è difendere i diritti dei gay dal punto di vista della libertà individuale alla scelta; non, invece, fare di tale battaglia una scusa per sindacalizzare e statalizzare tutte le relazioni umane ed aggiungere, a quelle che già ci sono, sovrastrutture legali e normative ulteriori.