Il pensiero istituente e la creatività politica nell'ultimo saggio di Roberto Esposito
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Al vuoto di fondamento proprio della democrazia, allo scontro originario insito in una società disordinata e divisa – scontro solo temporaneamente “frenato” dal potere pro tempore che si afferma – la deriva della politica totalitaria, alternativa sempre incombente sulla libertà, oppone la pienezza dell’Uno, la ricomposizione risolutiva del conflitto, la sterilizzazione violenta propria del dominio che occupa la casella del potere, che asserisce in maniera escludente l’idea salvifica, la purezza razziale, il destino della classe, l’insostituibilità del capo carismatico.
In fondo però, ci dice Roberto Esposito – nel saggio Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, edito nel 2020 da Einaudi - questa ricomposizione è ingannevole e quel conflitto, invece, è benefico e davvero caratterizzante la modernità democratica. E ciò perché l’Uno ricomposto nel “corpo del re”, in realtà, è solo immaginario, ideologico, fantasmatico.
La pretesa dell’occupazione reale della casella del dominio, l’incarnazione del potere, non annulla davvero il conflitto: il potere si sdoppia comunque, rispecchiandosi nella separazione del vertice dalla comunità che si pretende di rappresentare in toto e nella creazione del nemico da additare necessariamente quale hostis humani generis, feticcio funzionale alla narrazione securitaria.
Il conflitto democratico, invece, irrisolto nell’alternanza del potere e dei poteri, imbrigliato dal diritto, è l’espressione simbolica di una dinamica feconda tra società e potere.
Non c’è, infatti, una società prima del conflitto politico, né conflitto prima della società: sono co-originari. La società è istituita e ordinata nel potere e il potere è un prodotto della società in moto, attraverso lo svolgimento delle divisioni che la attraversano come differenza. Si compie in democrazia, quindi, una paradossale trascendenza immanente al sociale, un fuori-interno che nega l’auto rappresentazione autonomistica dei conflitti, evidenziando l’imprescindibile necessità della politica, di un ordine che si costituisce rendendosi contendibile.
Senza questa cifra di trascendenza, senza il “fuori” che nega l’automatico divenire, l’esito dell’appiattimento sulla sfera dell’immanenza non genera vera politica ma sovrapposizione tra questa immanenza e l’essere, producendo un indubbio effetto straniante, l’eclissi stessa della spinta politica al cambiamento.
In democrazia, ciò che si realizza è l’indeterminatezza del locus della sovranità, la sua alternanza di senso e pluralità incorporea, l’impossibile insediamento “reale” in una cornice simbolica che rende il posto del potere democratico un posto vuoto, privo di sostanza. In sintesi: un’analogia di forme secolarizzate contese nello scontro epocale sul campo aperto dei passaggi di ruolo, ordinati in istituzioni non solo statali. Istituzioni, quindi, organizzate nel diritto; un diritto che non si identifica solo con le norme del dover essere prodotto dallo stato ma che emerge, genealogicamente, come struttura o, meglio, come pluralità di strutture contingenti, provocate dalle necessità sociali interpretate come fonti involontarie.
Ed ecco, quindi, il ruolo proprio del giuridico in democrazia: non il rottame metafisico, necromanzia del vecchio, ma l’origine del potere che istituisce: l’articolazione propriamente moderna tra ciò che si afferma come stabilità e durata e il diritto di avere diritti che impedisce l’arroccamento.
Esposito nel suo importante saggio – che affronta un serrato confronto anche con Heidegger e Deleuze – trova, proprio sul punto dell’istituzione e, soprattutto, dell’istituire, un contatto teoretico tra Claude Lefort (il filosofo francese dell’incertezza democratica, emancipatosi dal marxismo grazie al conflittualismo insoluto di Machiavelli) e Santi Romano, il giurista dell’Istituzione e della crisi dello stato (già compresa agli inizi del Secolo Breve), a torto declassato a funzionario del fascismo.
Il pensiero istituente, infatti, disarticola il diritto statuale, non più inteso come esclusivo e svela, di contro, il conflitto vivace delle istituzioni autonome, l’affermazione, dunque, di poteri che sono alternativamente in moto per dare forma alla società, al mondo.
La dinamica dell’istituire democratico, quindi, nella libertà, supera ogni tentazione nichilistica, ogni cedimento impolitico all’essere o al divenire.
Si contrappone, infatti, tanto all’inazione emergente da un essere che si svela velandosi nella differenza ontica (nell’abisso che separa verità e esistenza) e che provoca il rifugio nell’auto esilio attendista (Heidegger e il suo pensiero destituente), quanto al piano scatenato dell’immanenza che esclude, incorporandolo, il negativo, che ingloba senza crisi ogni opposizione fattiva, e accetta, accelerandolo, un essere interpretato come privo di differenza, coincidente con il divenire, pura affermatività ontologica che dissolve il politico nella coincidenza tra questo e l’essere, senza scarti di negativo e di senso legittimanti l’azione e una politica altra (Deleuze e il suo pensiero costituente).
Contro tutto questo è la categoria di secolarizzazione, a mio parere, che riemerge e che merita il riconoscimento vivificante di una ragione non ideologica: perché teologia e politica, anche nel moderno, si mostrano connesse nell’originario della reciproca implicazione, senza una chiara legittimazione fondante, dunque, ma con un indubbio effetto creativo nel contesto delle res mixtae indecidibili, nell’ambito di quelle materie di confine che domandano rappresentazione istituente e che non possono essere soddisfatte dall’esilio nel puro teologico o, di contro, dall’accettazione affermativa dell’immanenza sfrenata, priva di alternative.
Il passaggio di funzioni dal sacro al profano, quindi, non può essere facilmente rigettato ma riemerge – pur in assenza di una precisa fondazione - nella politica democratica e laica, come appello: una politica che, nell’insussistenza del moderno, trova il suo vero riscatto. La società, infatti, non si afferma da sé, necessita della politica perché il potere non si desume automaticamente dai rapporti di produzione e perché la struttura economica non determina il politico mentre è questo – nel conflitto sociale irredimibile – a vivificare le istituzioni nuove.
I rapporti di produzione, infatti, diventano intelligibili solo in base all’articolazione istituzionale tra potere, sapere e legge. E ciò non è ideologia, tutt’altro, ma l’evidenza del simbolico, del pensiero e dell’azione. Attenzione, però, non c’è alcuna sicurezza in campo, nulla di garantito, nessuna rete di salvezza, solo possibilità.
E ciò è un bene! È un bene che la sicurezza sacra o ctonia, trascendente o sostitutiva, che legittima l’evocazione incontrollabile del Leviatano - a discapito del pluralismo sociale e dei suoi conflitti originari e fecondi - venga stigmatizzato come la tentazione sempre incombente sulla democrazia e le sue incertezze. Questa tentazione – che ha trovato, purtroppo, diverse epifanie - ci aiuta a comprendere anche le miserie della filosofia occidentale, i cedimenti spirituali di molti grandi pensatori che non hanno retto al fascino perverso del nazifascismo o del comunismo liberticida.
Si è trattato di un vero e proprio crollo etico, derivato dall’illusone che le scissioni sociali potessero essere ricomposte nello stato, attraverso una nuova sicurezza unitaria. L’ansia di ristabilire l’Uno, di abbattere l’ombra di ogni negatività, di rendere ancora più lontana e trascendente la trascendenza, si oppone e cozza con la sfida complessa della democrazia e del suo vuoto.
Se Heidegger, quindi, conclude la sua parabola (im)politica affermando l’impossibile indeterminato secondo il quale "solo un dio ci potrà salvare", l’autentico pensiero democratico, invece, sembra impegnato, di contro, affinché nessun “dio mortale” ci debba più salvare!
E qui entra propriamente in gioco, nel denso saggio di Esposito, il richiamo a Santi Romano, al teorico dell’identità tra istituzione e diritto, al pensatore della crisi dello statalismo (il saggio Lo stato moderno e la sua crisi è del 1909 e il suo capolavoro, L’ordinamento giuridico, è del 1918) che considera il diritto, appunto, eccedente gli ambiti del solo diritto statuale e genealogicamente antecedente ogni norma positiva, imposta dalla Ragione o dal Sovrano.
Il richiamo a questo pensiero giuridico che supera tanto il formalismo kelseniano (tutto chiuso sulla legittimazione autistica della Grundnorm – della norma fondamentale - insensibile ai fermenti della società) quanto il decisionismo che sacralizza il diritto positivo, serve a Esposito, nello snodo democratico del pensiero di Claude Lefort, per affermare il legame moderno tra diritti umani e potere.
Il trono vuoto, l’assenza del re, l’apocalisse dell’Idea e dell’Uno, favorisce la forza istituente dei nuovi diritti che promanano dalla domanda sociale e dal conflitto, perché tale emersione contraddice non solo il potere costituito, troncandone gli aculei e l’istinto alla durata sine die, ma riporta in auge la dialettica tra legittimo e illegittimo, schiudendo i confini del diritto oltre i limiti della legislazione, attraverso il recupero “politico” della giustizia, di una giustizia lontana dallo status quo e, quindi, come tale, assenza e pensiero negativo che, nella coazione all’ordine nuovo, diviene - paradossalmente e senza garanzie trascendenti - forza affermativa di un processo istituente fecondo, aperto alla crisi sociale e alla crisi dello stato. Crisi cui solo la democrazia può porre rimedio senza il ricorso alla violenza soffocante.
In democrazia, quindi, il posto del legislatore supremo non è occupato da alcuno e ciò, per fortuna, porta alla continua organizzazione di uno spazio pubblico di uguali, che è o spazio della parola, del dialogo, dell’azione non sottomessa. Uno spazio pubblico contingente, aperto all’eccezione, che è fonte involontaria del diritto, che schianta lo stato, il potere, sulla forza delle richieste dei nuovi soggetti collettivi, in concorso tra loro, per l’affermazione epocale delle istituzioni libere.