angelus

Sentir parlare oggi di decrescita significa non tener conto della spada di Damocle di tipo demografico che grava sul pianeta. La popolazione del pianeta è cresciuta lentamente dall’Antichità fino al Medio Evo, è rimasta grossomodo costante nel XIII e XIV sec. per poi crescere fino al XVII ed infine esplodere nel XIX e XX sec.

I demografi prevedono 10 miliardi di umani nel 2050 e ben 11,5 nel 2100. Anche se le previsioni sono legate a dei parametri (abbassamento del tasso di natalità) che sono anche loro interpolazioni degli andamenti previsti nei paesi in via di sviluppo, ove si concentrerà l’incremento demografico atteso, i numeri non possono essere misconosciuti. Infatti, come mostrano i dati del diagramma in figura 1, la crescita demografica dell’Oceania inciderà poco, l’Europa calerà, le due Americhe cresceranno di 1/3 ma incideranno relativamente poco, mentre quasi raddoppieranno sia l’Asia (da 4,8 miliardi del 2015 passerà a 5,2 nel 2050 per poi iniziare a diminuire) che l’Africa (da 1,2 passerà a 2,5 miliardi nel 2050 continuando poi ad aumentare fino al 2100).

Oggi un uomo su sette è africano, nel 2050 sarà 1 su 5 e nel 2100 si arriverà a 1 su 3; la ragione della crescita abnorme attesa in Africa sta nel suo tasso di natalità che è preventivato ancora in aumento (anche perché i 2/3 della popolazione ha meno di 25 anni), mentre l’Asia è stimata in diminuzione in fatto di natalità. In sintesi saranno Africa e Asia che ospiteranno gran parte degli abitanti della Terra e l’attesa è quella di vederli sempre più migrare verso il continente europeo.

Negli ultimi tre decenni sul pianeta siamo aumentati di 2,4 miliardi e nel prossimo trentennio con ogni probabilità ve ne saranno ulteriori 2,4 miliardi. Arriveremo cioè a 10 miliardi se stiamo alla variante mediana delle proiezioni dell’ONU, o, detto in altre parole ci saranno 10.000 persone in più da nutrire ogni ora. Tali trend demografici inducono a non escludere che l’Africa, che già oggi dipende dagli altri continenti per la sua sicurezza alimentare, sarà esposta nei prossimi decenni al rischio sempre più rilevante di una catastrofe malthusiana. Anche per tale ragione i grandi granai del mondo debbono continuare ad incrementare l’efficienza dei propri sistemi produttivi per coniugare l’elevata produttività con la sostenibilità ambientale privilegiando le innovazioni nella genetica e nelle tecniche colturali.

guiduilio

Figura 1 - Popolazione pregressa ed attesa nei vari continenti (1950-2100). Si noti che la popolazione asiatica è attesa in calo a iniziare dal 2050 mentre un trend ininterrotto all’incremento caratterizzerà l’Africa (Fonte: United Nations, Department of economic and Socaial Affairs, Populaton division, 2017. World population propsects: the 2017 revision. New York, United Nations).

 

Le lezioni del passato

Il secondo millennio che si è da poco chiuso è stato caratterizzato da spaventose carestie ed epidemie, in parte su ampi territori e molto più numerose localmente. Citiamo quella spaventosa del 1314-15 prodromo all’epidemia di peste bubbonica del 1347-51 che secondo i dati del US census bureau ridusse la popolazione mondiale di 68 - 93 milioni con un calo da 443 a 350–374 milioni.

Da rammentare poi le grandi carestie francesi del 1594-97, 1693-95 e del 1740, le ricorrenti carestie del Bengala (1769-73, 1873-74 e 1942-43), quella del 1845-46 in Irlanda, le carestie sovietiche (1930-32 e 1946-47) e quella cinese del “grande balzo” (1958-61). In Italia le carestie furono più locali che generali. Tuttavia per gli scopi di questa nota è bene ricordare le due carestie europee del 1709 e del 1816 dovute ad eventi climatici anormali, la prima caratterizzata da un gennaio-marzo polare (gelò la laguna di Venezia ed un dipinto del pittore Gabriele Bella lo testifica) e la seconda conosciuta come l’anno senza estate (molto tempo dopo ne fu individuata la causa nell’eruzione del vulcano indonesiano Tambora): in Italia (altrove fu anche peggio) piogge torrenziali interessarono gran parte della nazione con fiumi esondati e clima particolarmente freddo per il periodo, con il ghiaccio che addirittura era presente localmente ancora ad agosto. Inoltre la neve che fece la sua comparsa in inverno, era di colore rossastro, a causa delle polveri dell’eruzione.

Qualcuno potrebbe pensare che ormai il mondo occidentale sia immune dalle carestie, solo che vivendo in un mondo globalizzato, gli sconvolgimenti dei mercati sono ancora possibili in conseguenza di penurie dettate da andamenti climatici anomali laddove maggiori sono le correnti d’esportazione di derrate. Si ricorda che il mercato delle derrate è dato dai surplus e quindi si tratta di quantità molto limitate rispetto alla produzione totale (le scorte di zucchero sono costituite al massimo dal 20% della produzione mondiale) e quindi sono facilmente influenzabili da piccole variazioni sui mercati e soggette a speculazioni quando si rompe il fragile equilibrio tra domanda ed offerta.

Ne abbiamo avuto un esempio nel 2008 quando i prezzi del frumento sono schizzati provocando aumenti del del pane nei paesi del Nord Africa molto tributari dalle importazioni e che hanno generato le conseguenze che ben conosciamo in fatto di sommovimenti politici (le cosiddette “primavere arabe”) e ondate migratorie. A tali aumenti dei prezzi contribuisce in modo sensibile la stessa non-autosufficienza del nostro Paese, la quale ci spinge inevitabilmente ad approvvigionarci sul mercato mondiale con effetti di incremento dei prezzi nelle annate più critiche, il che può mettere a repentaglio la possibilità di paesi in via di sviluppo di approvvigionarsi.

In passato i ricordi storici delle carestie e l’evoluzione della demografia hanno impensierito molti pensatori. Fra di essi ricordiamo Adam Smith il quale nel suo capolavoro La ricchezza delle nazioni ebbe a scrivere che «L’analisi delle penurie e delle carestie che hanno colpito l'Europa negli ultimi due secoli evidenzia che: le penurie non sono mai state frutto di complotti di commercianti di granaglie ma, tranne alcuni casi conseguenti a guerre, sono sempre state prodotte dall'inclemenza del tempo atmosferico mentre le carestie sono sempre state frutto della violenza di governi che con mezzi impropri tentavano di rimediare agli effetti di una penuria», considerazione che sarà proposta con accenti simili dal Manzoni nel capitolo XII dei Promessi Sposi.

Malthus invece teorizzò che le risorse alimentari crescessero in progressione aritmetica, mentre la popolazione cresceva in progressione geometrica, deducendone che bisognava limitare le nascite onde evitare che la natura facesse il suo corso con la fame e le malattie. Per fortuna le previsioni di Malthus si rivelarono erronee in virtù di due principali eventi: da una lato l’emigrazione della popolazione europea verso due continenti pochissimo popolati come le Americhe e l’Australia e che poi produssero cibo alla stregua e molto di più dell’Europa; dall’altro il miglioramento delle produzioni grazie alle nuove tecniche che aumentarono le rese del lavoro umano e quelle unitarie delle terre (un agricoltore nel 1800 nutriva 4-6 persone, mentre negli anni 2000 ne nutre in media 100).

Tuttavia, benché smentite, le paure maltusiane sono oggi spesso riprese. In tal senso occorre ricordare quelle del francese René Dumont, poi candidato “ecologista” alle elezioni presidenziali del 1974, che nel 1966 lanciò l’allarme dicendo che siamo tutti votati alla carestia perché le risorse alimentari crescono meno della popolazione del terzo mondo. Due le sue soluzioni proposte: da un lato triplicare le produzioni nel corso dei successivi 40 anni (mentre adesso i suoi eredi ecologisti invocano la decrescita), e dall’altro regolamentare le nascite. Nel 1972 fu invece il Club di Roma che rinverdì Malthus proponendo la stabilizzazione della popolazione mondiale. Altra considerazione che sorge di fronte a queste prese di posizione è quella che in ambedue i casi nessuno spiega come e chi possa decidere chi debba vivere e chi soccombere.

In aggiunta a quanto si diceva circa la demografia, bisogna annotare la crescita della speranza di vita, che negli ultimi 50 anni è aumentata di 20 anni (da 46 a 70 anni circa). Si prevede che gli ultra sessantenni nel 2050 saranno due miliardi. Molto interessanti sono anche questi dati proiettati al 2050 secondo i quali il rapporto tra il numero di persone attive e quelle al di sopra dei 65 anni passerà da 9 a 4, l’età mediana passerà da 26 a 36 anni e gli ultrasessantenni saranno un sesto di tutta la popolazione, sorpassando i minori di 5 anni.

Quali le conseguenze? Il numero di agricoltori chiamati a nutrire il mondo saranno sempre meno e quindi le “macchine” dovranno moltiplicare il rendimento nel lavoro di chi è rimasto in agricoltura. Questo fenomeno sarà il grande stravolgimento del ventunesimo secolo. Quindi chi preconizza la diffusione delle imprese familiari e il ritorno all’agricoltura di sussistenza non sa quello che dice. Coloro i quali non si preoccupano del raggiungimento di un maggior tasso di equilibrio della bilancia commerciale nazionale, quando questa è fortemente in disequilibrio, è fuori dal mondo. Certo nelle società invecchiate i bisogni alimentari non cresceranno quantitativamente, ma lo diverranno qualitativamente e noi sappiamo che (geneticamente parlando) la crescita ponderale della produzione è data accumulando geni presenti nella specie, mentre la qualità ha bisogno di geni nuovi. Dato che i metodi di miglioramento di genetica classica sono troppo lenti per i tempi a disposizione, a maggior ragione sbagliano anche coloro che vorrebbero tarpare le ali alle nuove biotecnologie.

 

L’inurbamento della popolazione

Questo è un fenomeno mai venuto meno fin dagli albori delle civiltà: il passaggio dell’uomo da coglitore-cacciatore ha portato alla sedentarizzazione, solo che questa, dato che se isolata era pericolosa, divenne agglomerata mediante la fondazione di villaggi che man mano sono divenute città. Ma le città esigono una vita comunitaria ed una stratificazione sociale in merito alle funzioni religioso-amministrative. Dunque già 6000 anni fa in Mesopotamia ed anche in Cina vi fu uno strato di popolazione che pretendeva, appunto per i servizi prestati (clero, magistrati, burocrati, soldati, artigiani e commercianti), dal resto della società che il cibo fosse loro fornito da chi si dedicava all’agricoltura.

Venendo ai nostri giorni: se nel 1700 il 10% della popolazione era inurbata, nel 1950 i paesi sviluppati raggiunsero la parità (50% di inurbati) e nel 2010 la raggiunse tutto il pianeta. Ormai quindi il 50% è raggiunto e vi sono più di 30 megalopoli (superiori a 10 milioni di abitanti), quando subito dopo la seconda guerra mondiale ne contavamo solo due. Le 500 città più grandi del globo (con almeno 1 milione di abitanti) concentrano già 2 miliardi di persone (1/4 della popolazione mondiale attuale), mentre le zone rurali ne ospitano 3,3 miliardi, che è esattamente il numero di 20 anni fa. Fa eccezione l’Africa che seppure anche qui avvenga una galoppante urbanizzazione, vede un aumento di popolazione rurale.

Le Nazioni Unite prevedono un tasso di inurbamento del 60% nel 2030 e del 70% nel 2050. I paesi in via di sviluppo nel 2030 conteranno circa 4 miliardi di inurbati con un tasso di urbanizzazione del 57%, mentre i paesi sviluppati concorreranno con un miliardo, ma con ben l’82% di tasso di urbanizzazione. Dunque le campagne si andranno man mano spopolando, altro che i “campesinos” che dovrebbero, secondo Carlìn Petrini, sfamare il mondo. La terra rimarrà “madre” ma con i figli scappati di casa!

Cosa significa tutto questo? Semplice : il cibo occorre produrlo in gran quantità, meccanizzando intensamente e portarlo nelle città a prezzi accessibili. Che senso ha discutere di cambiare modello agricolo per produrre semplicemente meno? La realtà sarà che si dovrà produrre di più e nel contempo migliorare le pratiche agricole per diminuire l’impatto ambientale. Per farlo occorrerà ricorrere di più a innovazioni scientifico-agronomiche. È sensato pensare di produrre con protocolli biologici a livello mondiale e lasciare, quindi, che i raccolti siano sottoposti ad un’alea produttiva molto più grande? 

 

La crescita della classe media

Da non dimenticare poi l’evoluzione dei consumi a cui assisteremo con lo sviluppo delle società dei paesi ora in via di sviluppo o sottosviluppati, cioè la crescita delle classi medie (nel 1999 in Cina il 55% della popolazione viveva con 1,90 $/giorno, nel 2015 ci vive solo lo 0,7%). La “classe media” è divenuta maggioritaria: ad inizio secolo XXI era composta da 2 miliardi di persone, oggi siamo a 3,6 miliardi e si stima che tra il 2020 ed il 2030 le classi medie asiatiche passeranno da 3,2 miliardi a 4,9 miliardi: esse, però, caleranno nelle Americhe e in Europa, resteranno stabili in Medio Oriente e in Africa.

Una tale evoluzione modifica la domanda alimentare: se prima dominava una domanda di sussistenza, ora assistiamo a uno spostamento della domanda verso cibi e abitudini che erano propri dei soli paesi ricchi. In Asia si assisterà alla domanda più pressante di cibo elaborato e più costoso in termini di impatto sull’ecosistema. Inevitabile che quindi cresca la domanda di carne e pesce; questo aumento nei prossimi 30 anni è previsto in un +40%. Tra il 1980 ed il 2005 i consumi di carne e uova sono raddoppiati ed anche quadruplicati in certi paesi, salvo che nei paesi del Sahel. In Cina i consumi di carne sono quadruplicati, moltiplicati per otto quelli delle uova e per 10 il consumo di latte (in Brasile il consumo di latte è stato moltiplicato per 40). Nel 1957 il consumo mondiale di carne era di 67 milioni di t/anno, oggi siamo a 320 milioni e nel 2050 saremo a 460.

Qualcuno potrebbe dire che queste sono solo interpolazioni, e quindi la realtà potrebbe smentire le previsioni. La risposta a questa eccezione deriva dall’esperienza vissuta da noi europei. Si citano ad esempio i dati francesi che dicono che nel 1850 i glucidi esaurivano il 70% della dieta ed un altro 20% era dato dai lipidi, nel 2000 i due macronutrienti circa si equivalevano con un 40% ed un 45%, gli unici che non sono cambiati sono i consumi proteici 10-12%; senza sottacere poi gli aumenti di frutta e verdura del 65% e il crollo dei consumi di vino. Noi occidentali potremmo anche diminuirne il consumo di carne e ciò ci farà bene, ma l’aumenteranno gli asiatici.

Comunque l’evoluzione delineata comporterà un aumento degli scambi internazionali di derrate agricole e la crescita delle industrie alimentari specialmente nei paesi dove l’inurbamento sarà più consistente, infatti, solo l’industria alimentare si potrà interporre tra produzione ed operare la trasformazione necessaria per far arrivare del cibo sano e ben conservato nelle città. I prezzi agricoli mondiali in questo quadro come evolveranno? Dobbiamo subito dire che da dieci anni crescono, un 2,5% si è già consolidato, e non vi è motivo di credere che caleranno. Pertanto alimentarsi, globalmente, sarà sempre più una questione di disponibilità di denaro. Ci si chiederà come si spiega che gli agricoltori si lagnino dei prezzi agricoli troppo bassi, ma che ci si dimentica che non sono i prezzi agricoli in sé da guardare, ma i costi che crescono più dell’aumento di prezzo del prodotto; questo rende problematico produrre in certe zone del pianeta. L’UE è fortemente interessata al fenomeno e all’interno dell’UE l’Italia ha ormai “l’acqua alla gola”.

 

I cambiamenti climatici

Siamo in vena di preconizzazioni ed allora mettiamoci anche quella i cui effetti sono solo previsti per grandi linee, oppure dove si va dal pessimismo più nero al realismo un po’ più ragionato, i cambiamenti climatici. Tre sono gli avvenimenti ipotizzati in base a un intervallo di aumento di temperatura di 1,8-4° C: 1°. La diversa ripartizione stagionale delle piogge e desertificazione di terre attualmente coltivate; l'accresciuta frequenza e intensità degli eventi atmosferici estremi (canicole, siccità, uragani e inondazioni); l'innalzamento del livello dal mare da 20 a 60 cm e penetrazione dell’acqua salata nelle terre coltivate litoranee.

Secondo stime della FAO circa l’11% delle terre coltivate saranno interessate, e ciò condurrebbe a una perdita di prodotti agricoli del 16%, in gran parte cereali. Tutto il bestiame vivente nelle zone più calde sarebbe soggetto a più malattie e attacchi parassitari. È sicuro che con questo scenario le piante coltivate oggi non saranno più adatte a fronteggiare il cambiamento e quindi occorrerà selezionarne di nuove. Affinché gli agricoltori possano continuare a nutrire il mondo occorreranno quindi nuove varietà e anche nuove razze animali, e nello stesso tempo anche le pratiche agricole dovranno cambiare (irrigazione e lotta contro le malattie e gli insetti).

I tempi occorsi negli ultimi 100 anni per adattare le piante agli accresciuti bisogni di cibo, in un prossimo futuro assomiglieranno ai dei tempi biblici, se visti nella prospettiva del pochissimo tempo che abbiamo a disposizione per adattare le piante coltivate, pertanto o usiamo le biotecnologie in modo massiccio oppure siamo condannati ad eventi disastrosi. Pertanto in un futuro non molto lontano gli anti-Ogm saranno ricordati come curiosità storiche, alla stregua delle previsioni di Malthus.

Per contrappasso vi è anche l’ipotesi plausibile che un aumento di temperatura (se l’acqua non sarà un fattore limitante e se aumenta la CO2) comporti una fotosintesi clorofilliana più intensa. Se la concentrazione di anidride carbonica passasse dallo 0,4% di oggi ad uno 0,8% alla fine del secolo si potrebbe avere una stimolazione all’aumento della fotosintesi del 20-30%, con conseguente aumento di biomassa del 10-20% (compresa quella commestibile). Gli esperti ci dicono che saranno più le piante delle regioni temperate a goderne (frumento e bietola da zucchero ad esempio) e meno quelle delle regioni tropicali (mais sorgo e canna da zucchero). Tuttavia potrebbero essere le piante perenni (praterie e foreste,) a goderne di più, e meno le piante a ciclo annuale. La spiegazione sta nel fatto che le piante annuali accorcerebbero il loro ciclo di vegetazione e di conseguenza il tempo di fotosintesi sarà più limitato e con minor produzione di biomassa. 

Comunque sia, una equipe di agronomi avrebbe ipotizzato che le più beneficiate sarebbero le regioni settentrionali dell’emisfero nord con un +30% (ecco che le praterie attualmente non coltivabili perché poste a latitudini troppo elevate e con temperature troppo basse per eccessivi periodi dell’anno lo potrebbero divenire). Per contro le regioni meridionali potrebbero essere svantaggiate anche a livello di -50%. Quella riferita è una delle ipotesi più ottimistiche, altre lo sono meno e parlano di un +3/5% nei paesi sviluppati ed una decrescita uguale in Africa e Asia. In queste zone poi l’adattamento delle coltivazioni ai mutati scenari climatici sarebbe molto più problematico appunto per il diverso grado di sviluppo scientifico. Come si vede, nel campo dei cambiamenti climatici siamo molto più nell’ipotetico, i numeri spesso sono usati per scopi di propaganda politica e dunque con conseguente perdita di attendibilità. Comunque, chi vivrà vedrà.