Il CETA non può farci che bene. Parola di agricoltore
Strade del Cibo
Da agricoltore non sono preoccupata per le conseguenze del CETA (l'accordo di libero scambio tra UE e Canada). Sembrano invece esserlo alcune forze politiche e i dirigenti di un’associazione di categoria agricola che si scagliano contro l’accordo, sventolando la bandiera della difesa degli agricoltori italiani. Ecco, vorrei tanto essere un po’ meno al centro delle attenzioni di questi protettori che pretendono di difendere me e i miei colleghi: non vorrei morire di troppo affetto.
Dai dati finora pubblicati l’export italiano verso il Canada è cresciuto di più dell’8% da quando è in vigore – provvisoriamente - l’accordo CETA; questo significa 400 mln di euro di fatturato in più, posti di lavoro, PIL. Non riguarda solo l’agroalimentare, ma anche l’industria della moda, dell’auto, della ceramica, la cantieristica navale, ecc.
Il CETA è un modello avanzato di gestione degli accordi di libero scambio, i cosiddetti “deep and comprehensive”, come pure il JEFTA con il Giappone e quello in discussione con il Regno Unito; tentativi di globalizzazione guidata, se vogliamo. Inoltre è il primo accordo di tipo misto, cioè prevede la ratifica da parte di tutti i parlamenti nazionali. Anche per questo motivo è opportuno che venga ratificato: oggi più che mai è importante per imprenditori, lavoratori e cittadini europei che l’UE sappia dimostrarsi unita, coesa intorno alle proprie politiche commerciali, per essere più forte. La tentazione crescente di imbastire tentativi di accordi bilaterali non può che essere dannosa per Stati singoli come l’Italia, va disinnescata, ci indebolirebbe: è in Europa e insieme ad essa che dobbiamo essere presenti, forti e solidali.
Con questo accordo il Canada ha finalmente accettato il principio delle indicazioni geografiche UE riconoscendone 143, tra cui 41 italiane. Certo, nel nostro Paese ce ne sono altre 250, dato che siamo stati molto prolifici nel richiedere riconoscimenti di tutele presso l’UE; ma queste rappresentano il 90% dell’export italiano verso il Canada: vini, prosciutti, grana, parmigiano, molti pecorini, asiago, taleggio, ecc. Una parte del mondo agricolo italiano è contraria, o meglio, lo sono i dirigenti di Coldiretti; tutti gli altri sono favorevoli, cioè il coordinamento di Agrinsieme, con Confagricoltura, CIA, Copagri e Alleanza delle Cooperative Agroalimentari.
Il ministro delle politiche agricole Centinaio ha rilasciato dichiarazioni ondivaghe sulla ratifica di CETA da parte dell’Italia: a tratti si dichiara contrario, ma ha anche detto che vuole prima vedere i risultati per poi decidere. Giudicare dai fatti appare un approccio corretto; anche perché l’implementazione dell’accordo, delle nuove logiche produttive e delle procedure richiede tempo. Sono anche previsti alcuni processi di phasing out, quindi in definitiva il riaggiustamento dei mercati per effetto a cascata richiede del tempo. Bene quindi se il ministro valuterà effettivamente l’accordo per i suoi risultati.
Simili le dichiarazioni del ministro dell’economia Tria, che si riserva di valutare nel dettaglio ma si spinge ad affermare che il libero commercio attraverso accordi commerciali è sempre una buona cosa.
Altri, come la europarlamentare Beghin del M5S, temono il Canada perché produce molti Ogm. Io dico: bene, lasciamoli arrivare. Prima di tutto perché ne arrivano già in grande quantità: si pensi che l’UE importa il 70% del proprio fabbisogno di proteine vegetali, buona parte del quale è da piante Ogm. In secondo luogo, perché se davvero siamo convinti della superiorità del prodotto italiano, non dovrebbe forse essere questa l’occasione giusta per valorizzarlo? È sempre dal confronto con altro che si evidenzia il valore oggettivo.
Capitolo a parte merita la questione grano duro. L’UE è importatrice netta, prevalentemente da Canada, Kazakhstan e Australia; importiamo (dati della Commissione per l’annata commerciale 2017/18) 1.418.000 tonnellate. Il duro esportato dall’UE va essenzialmente in Nord Africa, 773.000 tonnellate. L’Italia, patria della pasta, non è autosufficiente per il fabbisogno di grano duro e talvolta la qualità non è adeguata per produrre della buona pasta; quindi l’importazione è indispensabile. Doloroso ammetterlo, ma non possiamo nasconderci dietro all’uso di glifosate che il Canada fa sui propri raccolti per bloccare l’import di grano duro.
La guerra al glifosate, infondata dal punto di vista della tutela della nostra salute, ha comunque portato ad un crollo delle importazioni di duro dal Canada: - 42,5% su base annua; sono in conseguenza aumentate le importazioni da Kazakhstan, Australia e Russia. Ricordo che l’accordo CETA prevede un’armonizzazione degli standard sanitari UE da parte del Canada; e comunque tutto ciò che entra in UE deve rispettare le nostre norme in materia di residui.
Mi sono chiesta: ma gli agricoltori canadesi che ne pensano? Saranno contenti di invaderci con i loro prodotti, come sostengono alcuni politici e un’associazione di agricoltori? Sul sito della canadese National Farmers Union si riportano le forti proteste degli allevatori canadesi, che temono la concorrenza della carne, in particolare di quella di maiale, e dei prodotti caseari europei. Formaggi, temono i nostri formaggi: in Italia siamo messi bene a formaggi, no? E per quanto riguarda la carne senza ormoni, temono di non essere in grado di competere con quella argentina nell’export verso l’UE.
Inoltre si lamentano che, per quanto sia vero che Il CETA apre nuovi mercati ai prodotti canadesi, è vero anche che apre il mercato canadese ai prodotti europei a dazio zero. Preferirebbero venissero tutelati e promossi i local markets, i mercatini locali, il km zero. Ecco quindi la logica che accomuna i contrari a questo accordo: una logica local. Nulla in contrario, naturalmente, ai mercati locali: rappresentano reddito per molte aziende e soddisfano le richieste di una classe di consumatori. Mi rifiuto però di pensare che siano queste le motivazioni per non ratificare un accordo che promette la crescita del nostro export agroalimentare.
Detto tutto ciò mi rimetto i panni dell’agricoltore italiano e faccio alcune considerazioni. È vero che parlando di export agroalimentare parliamo di industria alimentare e questo non necessariamente coincide con il mondo dell'agricoltura. È vero anche che gli animali dai quali si ottengono i prodotti Made in Italy, quelle indicazioni geografiche che il Canada ha finalmente riconosciuto, sono alimentati con mangimi prodotti in buona parte all’estero. Su questi aspetti si rendono necessarie alcune riflessioni. Innanzitutto perché se parliamo di prodotto italiano è corretto che il consumatore sappia cosa mangia l’animale.
In secondo luogo, e in conseguenza, è il caso di pensare a politiche di sostegno alla produzione europea di cereali e proteine per la mangimistica. Non penso ad assistenzialismo di tipo economico stretto, bensì a politiche di crescita: che indirizzino e liberino la ricerca; che liberino l’accesso all’innovazione, anche alle biotecnologie in quanto strumenti per produrre di più, meglio e con impatto sempre minore; che favoriscano accordi quadro per l’utilizzo di prodotti europei, nell’ottica di rafforzare filiere nazionali e europee vere. Penso anche che come agricoltori non dobbiamo temere l’import, a patto che le nostre aziende siano lasciate libere di crescere, di scegliere come investire in innovazione; altrimenti siamo in concorrenza con chi può produrre con strumenti migliori dei nostri.
Questo dovremmo chiedere alla politica: libertà di impresa. In fondo quello che fa di noi degli imprenditori è il fatto di scegliere come rischiare. Saprà la politica lasciarci liberi o ci vorrà tenere legati al guinzaglio del consenso? Di troppo paternalismo si muore soffocati.