Il senso del glifosate per l'agricoltura
Strade del Cibo
Dopo il rinnovo in sede europea dell'autorizzazione a utilizzare e commerciare prodotti per l'agricoltura contenenti glifosate, sulle pagine di Repubblica è nato un dibattito che, iniziando da un editoriale di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, ha visto la risposta della senatrice a vita e scienziata Elena Cattaneo e la contro-risposta del professore di agronomia Stefano Bocchi. Molti i temi toccati, a partire dalle possibili (o impossibili?) alternative al contestato erbicida, per arrivare all'agricoltura biologica e alle biotecnologie. Sulla scia di questo dibattito, Alberto Guidorzi offre il punto di vista di un agronomo che “studia” e lavora in campo da decenni.
Da agronomo che ogni giorno lavora 'in campo', ritengo le alternative proposte all'uso del glifosate in agricoltura, ad oggi, irrealistiche e poco convenienti. Continuare a sottostimare i suoi effetti positivi e ad amplificare quelli negativi, a lungo andare, nuocerà al comparto agricolo di tutto il Paese.
Il glifosate è un erbicida totale (usato in pre-semina, elimina tutte le malerbe) e sistemico (viene assorbito, migra nelle radici e tutte le piante indesiderate muoiono); ha scarsa tossicità (solo ingerendone quasi mezzo kg in una sola volta si avrebbe un 50% di probabilità di morire; di sale da cucina ne basterebbe la metà); non è cancerogeno, secondo autorità sanitarie e studi epidemiologici; costa molto poco, con 9€ di prodotto si diserba un ettaro; viene degradato dai microrganismi del suolo e dopo 20 giorni dall’irrorazione si può seminare un'altra coltura (che quindi non “assorbe” glifosate, anche perché non penetra nei suoi semi); i suoi prodotti di degradazione (AMPA) sono innocui e trattenuti dal terreno, li troviamo nelle acque superficiali e non in quelle profonde; peraltro, anche i detersivi fosfatati producono AMPA, quindi come mai coloro che si preoccupano per tali residui limitano le loro campagne solo "contro" il glifosate?
Il diserbo con glifosate, nel caso di malerbe temibili come il sorgo d’Aleppo, non è sostituibile con quello eseguito con mezzi meccanici, poiché essi frammentano i rizomi (“fusti” sotterranei delle piante erbacee), portando a moltiplicazione abnorme dell’infestante. In tal caso l'alternativa sarebbero le arature profonde del terreno, che però comportano elevati dispendi di energia e forti emissioni di CO2 (combustibili fossili), distruzione di sostanza organica, erosione dei terreni. Altre strategie, come il pirodiserbo (con il calore), presentano altri notevoli svantaggi oltre all’inadattabilità alle grandi coltivazioni. Come procedere, poi, su terreni accidentati dove le macchine non possono operare? E nessuno pensa alla spesa che dovrebbero sostenere le aziende agricole, se fossero obbligate a non servirsi più del glifosate, per adattare il parco macchine ai nuovi e meno efficaci metodi di diserbo?
Oggi proliferano le aziende che praticano il biologico, alcune come “aggiunta” al tradizionale. Conviene. Al bio si garantisce, infatti, una rendita slegata dal lavoro e dalla produzione: i sussidi pubblici arrivano comunque, anche quando non vi è nulla da raccogliere. Dalle statistiche ufficiali di Sinab si evince che oltre il 60% della superficie certificata come biologica non produce cibo per umani o non si differenzia dalla coltivazione convenzionale: i sussidi anestetizzano lo sviluppo del sapere agricolo e il disperato bisogno di agricoltura vera e obbligano il "consumatore bio" a mangiare cibo importato per il 50%.
Sulle confezioni di glifosate si legge: “Tossico per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata”. Sui formulati a base di Spinosad e Azaridactina, usati in agricoltura biologica, invece, c'è scritto: "Altamente tossico per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata". Peggio dunque del glifosate. Il protocollo del bio vieta concimi di sintesi e fitofarmaci più efficaci, e opta per l’uso di sementi di varietà sorpassate, il che provoca, se va bene, un calo del 50% nella produzione. Di conseguenza, un 100% di biologico imporrebbe di raddoppiare le superfici agricole, distruggendo ecosistemi a non finire.
L’Ipsos francese ha calcolato che, senza glifosate, i costi aggiuntivi di produzione sarebbero del 23-26%: due miliardi di euro l'anno per l’agricoltura, 600 milioni per le sole ferrovie, che da decenni usano prodotti a base di questo erbicida per diserbare le massicciate. È questo il tipo di studi che l’università italiana, e le facoltà di agronomia in particolare, dovrebbero condurre per essere veramente utili al progresso del Paese.