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Se vi piace mangiare carne, sappiate che non è dovuto a una vostra libera scelta, ma all’«arroganza di un mercato che impone, tramite gli strumenti di comunicazione di massa, i propri bisogni commerciali ai consumatori». Oppure, potrebbe essere tutta colpa degli «stili di vita sempre più frenetici, [del]l’industrializzazione dei prodotti alimentari avvenuta negli ultimi decenni e [de]l conseguente proliferare di numerose catene di fast food in tutto il territorio» che hanno modificato «i princìpi dietetici alimentari tipici della nostra cultura e in particolare quelli delle giovani generazioni, specialmente delle aree più urbanizzate».

Non ci credete? Eppure sono due parlamentari della Repubblica a sostenerlo (rispettivamente l’on. Brambilla, di Forza Italia, e l’on. Cenni, del PD): e non in un’intervista o in un post su Facebook. Nossignore, è scritto, nero su bianco, in due proposte di legge presentate in Parlamento. E questo non è che un piccolo “antipasto” – per restare in tema – di una questione ben più grande e grave: che succede, cioè, quando le sempre più insistenti contrapposizioni in tema di stili di vita e comportamenti alimentari fuoriescono dal libero mercato delle idee per entrare nella dialettica parlamentare? Come dobbiamo comportarci se lo Stato si mette in testa di poter decidere cosa dobbiamo mangiare?

Non si tratta di domande oziose o di paranoie libertarie: nella XVII legislatura della Repubblica italiana, sono stati infatti promosse ben 20 iniziative legislative – tra proposte di legge e ordini del giorno – che si occupano direttamente delle scelte alimentari dei cittadini italiani. Ora sono state raccolte, analizzate e commentate in un briefing paper curato da chi scrive e appena pubblicato per l’Istituto Bruno Leoni, dal titolo “Panem et salutem: tra mode alimentari e legislazione”. La prima e dirimente notazione che va fatta è che le scelte inerenti lo stile di vita delle persone, una volta entrate nel dibattito parlamentare, escono da quello meramente culturale e non sono più solo oggetto di una legittima scelta di vita individuale, ma diventano un cavallo di battaglia politica e, peggio ancora, un comando sovrano. Promuovere determinati stili di vita corrisponde in genere a svalutarne altri e diversi: e se a incaricarsi di questo compito è il Parlamento, si abbandona il terreno della promozione, per entrare in quello della coercizione.

Ciò che si deve subito evidenziare è che anche le proposte più “innocue” e che si presterebbero a raccogliere facili e larghi consensi – come quelle in tema di educazione alimentare nelle scuole – pongono già in allarme. È difficile, infatti, che qualcuno possa opporsi a iniziative di promozione della salute dei più piccoli: quello che però insospettisce e preoccupa sono i toni e i contenuti con cui questo fine (pur condivisibile) viene inseguito. Da una parte, infatti, i consumatori vengono rappresentati – meglio: caricaturizzati – come pronti a cadere in “trappole” mediatiche o a scoprirsi vittime di «mode d’oltreoceano»; dall’altra, è fondato ed evidente il rischio che l’educazione alimentare venga usata per la celebrazione di tecniche agricole costose, superate dallo sviluppo scientifico e di scarsa utilità collettiva.

Si guardi, ad esempio, alle già citate proposte di legge: C.458 dell’on. Brambilla (FI-PDL), che ha come scopo quello di promuovere una precisa idea di educazione alimentare nelle scuole italiane, attraverso la diffusione della cultura vegetariana e vegana; e C.2403, a firma Cenni (PD) e altri, che punta ad istituire la “Giornata nazionale per l’educazione alimentare e la prevenzione dei disturbi alimentari”. In questi casi, la proposizione di un’alternativa alimentare diventa una questione di cultura: si lamenta una sorta di modificazione del modello dietetico nazionale, ingenerata da fattori non “autoctoni”.

Il dito viene puntato contro «l’industrializzazione dei prodotti alimentari», che avrebbe avuto la “conseguenza” di ampliare l’offerta dei fast food: un punto di vista piuttosto riduttivo, visto che dimentica il fondamentale contributo che la grande distribuzione organizzata ha apportato in termini di reperibilità e accesso al cibo. La proposta Cenni, presentata in vista dell’EXPO di Milano 2015, fa addirittura leva sul concetto (tanto vago quanto di moda) di “sovranità alimentare”: il fine della Giornata sarebbe allora quello di sensibilizzare la collettività ai temi di «un’alimentazione corretta fondata sulla qualità, sulla salubrità e sulla sostenibilità dei prodotti» (peccato che, al contrario di quanto sostenuto dai proponenti, si tratti di caratteristiche che, come ci ha ricordato Antonio Pascale, dobbiamo proprio alle moderne tecniche di coltivazione industriale).

Ma in Parlamento c’è chi auspica un intervento più diretto e immediato rispetto alla sola educazione alimentare e che possa passare attraverso, ad esempio, una politica di definizione – più o meno incisiva – dell’offerta di menù in mense pubbliche o private-convenzionate e dei distributori automatici. Così, se c’è chi si “limita” a promuovere l’introduzione di riserve di punteggio o di titoli preferenziali ai fini dell’aggiudicazione dei servizi di refezione in favore delle aziende che impieghino cibi “biologici” o provenienti da filiera corta, c’è anche chi avanza proposte ancor più perentorie, che stabiliscono quale stile di vita, a prescindere dalle possibili implicazioni in tema salute, debba essere adottato.

E in questo caso, la provenienza politica conta poco: ci sono tre PDL – la C.324 a firma Brambilla (FI), la S.140 a firma Cirinnà (PD) e la C.2377 a firma Busto (M5S) – che vanno dall’offerta e pubblicizzazione, in tutte le mense pubbliche, private e convenzionate, nei ristoranti, nelle caserme, negli ospedali, negli istituti penitenziari, di “almeno due menù vegetariani e vegani” (con relativa sanzione in caso di mancata osservanza della norma) (così la proposta Brambilla), fino alla previsione di un «giorno settimanale per i menù privi di qualsiasi alimento di origine animale» (così la proposta Busto). Cosicché, nei luoghi di ristorazione è obbligatorio, per un giorno della settimana, somministrare solo menù privi di qualsiasi alimento di origine animale. Il corto circuito logico di questo genere di previsioni è evidente: i progetti di legge in tema di promozione della dieta vegetariana e/o vegana si ispirano a un dichiarato intento di tutela della “libertà di scelta”; nel farlo, però, finiscono per negare questa libertà, tradendo un impianto illiberale, attraverso l’introduzione di giornate meat-free, imponendo a tutti la visione del mondo che hanno i proponenti della legge.

Non voglio togliere ai lettori il “piacere” di scoprire da sé, continuando nella lettura del paper, in quante e quali forme riesca ad esprimersi il genio legislativo dei nostri parlamentari: ma è d’obbligo anticipare qualche conclusione. Non c’è nulla di male nel preferire l’alimentazione biologica o la dieta vegana o nel consigliare un regime alimentare più bilanciato di quello a cui siamo abituati (anzi, si tratta di posizioni di libertà del singolo da trattare con il più rigoroso e dovuto rispetto).

Ma le iniziative che sono state analizzate dimostrano un obiettivo diverso rispetto alla mera sensibilizzazione delle persone a una diversa alimentazione: un obiettivo coercitivo che renderebbe quelle che sono nulla più che visioni ideologiche delle vere e proprie diete di Stato. Per questo si deve tenere alta la guardia: benché, infatti, la maggior parte di queste proposte non abbia neanche visto iniziare il proprio esame parlamentare, c’è da evidenziare come alcune tra di esse siano invece diventate legge. E se si aggiunge questo elemento al fatto che il numero delle proposte in materia pare essere in costante aumento, e, ancora, al fatto che esse vantino una provenienza trasversale rispetto ai gruppi parlamentari, non è peregrino concludere che ci troviamo davanti a una tendenza politico-culturale generale da non sottovalutare.

Perché tra queste proposte vi è certamente una differenza di merito e di grado di invasività, ma non di stima di una certa rilevanza dell’educazione di Stato e di disistima della capacità dei cittadini di regolarsi autonomamente in maniera responsabile. È dunque necessaria una vigorosa attitudine critica per evitare che il paternalismo di Stato, già presente in molti ambiti della nostra vita, pretenda di decidere anche cosa e quanto dobbiamo mangiare, trattandoci come bambini incapaci ancora di scegliere come nutrirci.