Frumento e autarchia: la nuova ‘battaglia del grano’
Strade del Cibo
“Sono 30 mila le aziende agricole dell’Emilia Romagna coinvolte dalla #guerradelgrano che ha visto questa mattina migliaia di agricoltori con trattori alle banchine del porto di Bari per l’arrivo di un mega cargo con grano canadese proprio alla vigilia della raccolta di quello italiano con evidenti finalità speculative”. Con un comunicato stampa di questo tenore, copincollato con poche variabili di regione in regione (sono 15.000, ad esempio, le aziende toscane), Coldiretti ha lanciato pochi giorni fa la sua battaglia contro il grano canadese importato in Italia.
Al di là della pretesa di intestarsi tutte le aziende agricole di tutte le regioni d’Italia, e non soltanto quelle dichiaratamente favorevoli alla campagna, l’iniziativa di Coldiretti si caratterizza per una inquietante somiglianza non solo linguistica ma sostanziale con la “battaglia del grano” di mussoliniana memoria, della quale ricalca le pretese autarchiche di autosufficienza alimentare. Peccato che all’epoca gli hashtag non andassero di moda.
C’è un particolare, però, che gli organizzatori dell’iniziativa omettono di raccontare, a proposito di questa presunta invasione di grano canadese “con evidenti finalità speculative”: se oggi un quintale di grano duro nazionale è prezzato circa 20 euro (18 il grano tenero), quanto costa in meno il grano straniero che ruba il lavoro ai grani italiani? Ebbene, il frumento canadese oggetto della contesa è prezzato, franco arrivo, circa 26 euro al quintale. Quindi un’industria molitoria che voglia rifornirsi di grano canadese dovrebbe sborsare un prezzo molto maggiore di quello che spunterebbe per il grano italiano, proprio all’inizio della raccolta. Uno strano concetto di speculazione.
Perché la differenza tra il grano canadese e quello italiano non la fa il prezzo, e nemmeno la minore qualità, come sostiene Coldiretti parlando di minori controlli, maggiori residui di pesticidi e dell’uso del glyfosate in fase di pre-raccolta. La differenza è nel maggiore contenuto proteico, che lo rende un prodotto di eccellenza: maggiore, non minore qualità, che si riflette in un prezzo giustamente più alto.
Se questa è concorrenza sleale, significa che è proprio l’esistenza della concorrenza a essere considerata “sleale” (anche qui, le somiglianze con il ventennio non sarebbero solo "stilistiche"): basta dirlo, evitando però di vantarsi quando sono i nostri prodotti a conquistare i mercati stranieri.