La fabbrica del futuro, la vera politica
Novembre/Dicembre 2016 / Editoriale
Tra declino demografico e miracolo tecnologico l’Occidente disegna le forme della società del futuro. Gli equilibri economici e antropologici del mondo globalizzato – a partire dai luoghi e dai modi di produzione e di consumo – sono innanzitutto una sfida politica. Senza ottimismi o catastrofismi ideologici, ma con la consapevolezza del formidabile cambiamento imposto dalle tecnologie digitali al nostro ecosistema sociale.
In Europa come negli USA la discussione pubblica, e di conseguenza quella politica ed elettorale, torna in modo potente a inseguire paure e sentimenti ancestrali. Così si spiega l’esigenza di rivendicare e di proteggere un'identità etnico-religiosa “autoctona” dalle presunte minacce del meticciato e della contaminazione culturale.
Anche un tema decisivo come quello del governo della globalizzazione economica, con le sue ricadute occupazionali, e della diseguaglianza nei redditi – reale e percepita – è adattato alle categorie della guerra allo “straniero”, immigrato a casa nostra o sottopagato a casa propria e indesiderato competitor sul mercato del lavoro o dei beni e servizi, che noi quotidianamente consumiamo e che pure non vogliamo più produrre al prezzo a cui siamo disposti a pagarli.
Indubbiamente la variabile demografica è destinata a giocare un ruolo tanto decisivo quanto, fino a oggi, rimosso, se non per essere invocato in modo strumentale e apodittico da parte di chi non può andare oltre il suo “Basta immigrati!” e al massimo li vuole “aiutare a casa loro”, senza specificare come, ma di certo senza spendere e senza importare, senza aprire e senza integrare, illudendosi di mantenere le “cose del mondo” a una prudente distanza di sicurezza.
La politica, per lo più, si rifugia nell’inconscio collettivo e, anziché lavorare per evitare le spiacevoli rimozioni della realtà e delle sue conseguenze, prova a trarne vantaggio. Parliamo d’altro, per non parlare dell’essenziale. In un’Ue di oltre 500 milioni di abitanti litighiamo su come ripartire i costi di qualche centinaio di migliaia di profughi prodotti dall’esplosione politica del Nord Africa e del Medio Oriente, che nella logica di Dublino “toccano” ai Paesi rivieraschi. Ma non sappiamo ancora come mettere mano o testa alla fine dell’ordine post-coloniale del mondo arabo, se non pensando di erigere muri di ostilità per fronteggiare un fenomeno epocale, in cui la sproporzione dei rapporti di forza, a partire da quelli numerici, ci condannerebbe a una sicura sconfitta.
Prendiamo atto con rincrescimento e vittimismo dell’invecchiamento della nostra popolazione – come se si trattasse di una congiura della storia, e non di un fenomeno “naturale” – ma non ammettiamo che in Italia e nella gran parte dei Paesi europei servono decine o centinaia di migliaia di immigrati ogni anno, solo per preservare il contingente della forza lavoro potenziale.
In questo quadro, la trasformazione dei modelli produttivi e il formidabile cambiamento imposto dalle tecnologie digitali al nostro ecosistema sociale non appare un tema politicamente sexy e neppure decisivo o interessante per il nostro domani. Così è proprio la principale infrastruttura politica del futuro – la quarta rivoluzione tecnologica, che sta ridisegnando, integrandoli, i sistemi di produzione e consumo di beni e servizi – a rappresentare, fuori dai circuiti accademici e specialistici, la vera grande assente della discussione pubblica. Tutti sappiamo cosa i leader pensino o promettano sugli immigrati, sul nuovo contratto del pubblico impiego, sul bicameralismo paritario e (ovviamente!) sui costi della politica, ma nulla ci è dato di sapere di quale idea si siano fatti sull'impatto della tecnologia sull'economia e sulla vita delle persone nei prossimi anni.
Facciamo finta di dimenticarci che la storia politica contemporanea è stata dettata dalle teorie e dalle divisioni nate intorno alla prima e seconda rivoluzione industriale, quella della macchina a vapore e della catena di montaggio. Facciamo finta che l’elettronica e l’automazione – la terza rivoluzione industriale – abbiano cambiato solo le quantità e non la qualità del nostro sistema produttivo. E facciamo finta di non vedere che la rivoluzione digitale comporta una riorganizzazione del lavoro e del sistema sociale, della domanda e offerta di competenze e dei ruoli e dei profili professionali. Si tratta di svolte radicali, che comportano nuove opportunità e nuove diseguaglianze e quindi nuove domande politiche, in termini di formazione e di protezione, ma anche di rappresentanza.
La rivoluzione digitale promette di essere pervasiva nel ridisegnare equilibri e gerarchie, dematerializzando e deterritorializzando, in tutto o in parte, produzioni e consumi. Oggi buona parte della musica che consumiamo, oltre che agli artisti o ai titolari dei diritti d'autore, porta guadagni all'intermediario che non è più il nostro concittadino “negoziante”, ma quasi sempre un'azienda della Silicon Valley. Se affittiamo la nostra seconda casa su Airbnb, non beneficiamo più l'agenzia del paese o del quartiere ma, ancora una volta, gli investitori della Silicon Valley che chiedono meno per l'intermediazione e garantiscono l’accesso a un mercato letteralmente planetario. Solo dieci anni fa l'automobile a guida automatizzata sembrava fantascienza, ma oggi sembra (sembra) a portata di mano: guideremo azionando un software sulla nuvola pagato a chilometro... e ovviamente a riscuotere saranno imprenditori californiani o domiciliati nella Silicon Valley.
Già oggi la cura dei nostri anziani è prevalentemente un business per stranieri: presto si potrebbero aggiungere i sistemi di controllo remoto, con software e addetti domiciliati a Bangalore, che noi pagheremo per sovraintendere ai dispositivi intelligenti “installati” nel nostro corpo o in quello dei nostri cari e capaci di assicurare prestazioni personalizzate e assai più efficienti e tempestive di quelle garantite nell’antico regime di cura, che non sapeva rimediare, nell’emergenza, a distanze di tempo e di luogo. Non è più così e tutto sembra annullabile, in una straordinaria integrazione di informazioni e saperi. Se gli interventi chirurgici saranno sempre più affidati ai “robot”, ciò permetterà ai nostri chirurghi di operare in paesi remoti e di cooperare per il raggiungimento di importanti obiettivi umanitari, ma consentirà anche a chirurghi lontani di operare nei nostri ospedali, pagati dal nostro servizio sanitario nazionale.
Si potrebbe continuare a lungo, ipotizzando scenari futuri e futuribili, ma già assolutamente concreti. È chiaro, le tecnologie potrebbero cambiare la divisione del lavoro e la distribuzione del reddito, nazionale e internazionale, in direzioni impreviste e spazzare via intere categorie di piccoli imprenditori di "classe media", come i noleggiatori di auto o i taxisti, sostituiti dai server di Uber.
Su come si debbano organizzare società e istituzioni in un Paese che vuole restare libero e democratico fronteggiando i nuovi equilibri demografici nella nuova rivoluzione tecnologica, la discussione pubblica e politica ancora non c'è, forse perché servono categorie diverse da quelle di “destra” e “sinistra”, che rimandano alla realtà sociale e politica di rivoluzioni industriali remote. Quelle di “aperto” e “chiuso”, ad esempio, come abbiamo più volte sottolineato, sarebbero più adeguate, perché implicano la ricerca creativa di una misura e di un equilibrio e della tutela possibile di interessi reali, e non si consacrano ideologicamente alla “direzione” della storia e dei suoi ipotetici protagonisti. Dove è e chi è il “proletariato” nella quarta rivoluzione industriale? E chi è il “capitalista”? Dove è il “primo mondo” e dove il “terzo”?
I nuovi equilibri economici e antropologici del mondo futuro – a partire dai luoghi e dalle forme di produzione – sono innanzitutto una sfida politica, fuori dagli ottimismi ideologici e dai catastrofismi apocalittici. Senza voltare le spalle al domani per votarsi a un passato che non c’è più, ma senza nemmeno attendere fatalisticamente il responso degli eventi, nell’illusione che ciò che diventerà reale sia per questo anche razionale.
La strategia per l'industria 4.0 è un impegno importante del Governo Renzi e del Ministro Calenda per incentivare la manifattura italiana, ma non solo, a salire sul treno delle tecnologie, della connessione e del cloud: delle macchine, oltre che dei tecnici, che apprendono on the job. Ma è anche un modo per rimettere davanti agli occhi della politica il vero volto della realtà e delle prove che ci attendono.
INDICE Novembre/Dicembre 2016
Editoriale
Monografica
- Tra estetica ed efficienza. Il design come fattore di innovazione
- L'innovazione è l'incontro tra 'sapere' e 'saper fare'
- La rivoluzione 4.0. L’impegno del Governo, le opportunità per l’Italia
- Ricomincio da quattro. La scommessa dell’industria 'intelligente'
- La fabbrica digitale come sfida sociale. Nuove tecnologie e nuova organizzazione
- Il lavoro 4.0. Il nuovo paradigma tecnologico e le dinamiche occupazionali
- Investire in competenze. Istruzione e ricerca per il Piano Industria 4.0
- Italia, non c’è industria senza ricerca
- Digitalizzazione e genetica, big data e personalizzazione. La medicina 4.0
- La tecnologia cambia il mercato. L’impresa italiana alla prova del futuro
- La stampa 3D e la rivoluzione dei processi produttivi
Innovazione e mercato
- Sistema bancario e redditività: non è (solo) di Deutsche Bank che dobbiamo preoccuparci
- Cannabis e legalizzazione, l’ideologia contro i dati
Diritto e libertà
- In galera. Appunti sulle carceri italiane
- Riforma dell'ergastolo ostativo, una nuova occasione (quasi) persa