Pene e luoghi di espiazione. Il sovraffollamento carcerario è solo un aspetto di un inestricabile garbuglio di criticità irrisolte, a partire dal modo di concepire e costruire la galera. Un modello sbagliato, che continua a rappresentare la regola, malgrado alcune significative eccezioni, purtroppo non recenti.

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«Prima si era abituati a stare in due in cella, anche se le carceri erano state costruite con l’idea di celle singole e il numero tollerabile era due. Adesso hanno cominciato ad aggiungere le terze brande, e siccome è più di un anno qua che c’è la terza branda, fra un anno il numero tollerabile è questo qui […]. L’unico parametro, alla fine, è l’abitudine». Parole pronunciate da un detenuto e comprese nell’VIII Rapporto di Antigone sulle condizioni della detenzione in Italia. Una sintesi semplificata di un problema che continua a rimanere insoluto e a oscillare tra il buonismo tout court e l’intransigenza senza ragione. Insomma, come un tema solo “politico”, nel senso deteriore del termine, pur essendo molto altro e “politico” in un senso più profondo.

L’angoscia provocata dalle grandiose architetture fantastiche in chiaro e scuro, immaginate da Piranesi nel 1745 ne Le Carceri d’invenzione, non dovrebbe trovare corrispondenza nella galera reale. Ma è innegabile che, pur cambiando la scala di rappresentazione, quell’impressione angosciosa non si è solo conservata, ma troppo spesso accentuata. I numeri del sovraffollamento sono l’esito certo di politiche incerte, cui spetta la responsabilità di avere costruito luoghi di reclusione di per sé “impossibili” e incompatibili con la loro funzione sociale e giuridica. Scatole di cemento prodromiche, nella loro nudità architettonica, delle sciagure che al loro interno si sarebbero consumate. Contenitori nei quali può considerarsi persa in partenza la sfida dell’art. 27, comma 3, della Costituzione, che pretende che le pene siano caratterizzate dal senso di umanità, che siano banditi i comportamenti inumani e la tortura e, soprattutto, che il fine della reclusione debba essere il reinserimento sociale del detenuto. Il perché si può desumere scrutando le storie di molti edifici trasformati in carceri. Luoghi chiusi in se stessi, naturalmente. Spazi in cui l’esterno non esiste più. Micro mondi dove la dimensione della cella è l’unica nella quale ci si muove. Realtà architettoniche nelle quali sono sostanzialmente assenti gli spazi cosiddetti “inter-esterni”, ovvero di transizione e di percezione da interno a esterno.

L’assoluto disinteresse per questi aspetti, che attengono certamente alla qualità architettonica, ma che mai come in questi ambiti si riverberano sulla vivibilità, ha lungamente caratterizzato le carceri italiane. Non deve stupire che, prima del “Piano carceri” definito dall’art. 2 della legge 23 dicembre 2009, n. 191, come anche della riforma penitenziaria avviata dalla legge 26 luglio 1975, n. 354, segnali importanti siano emersi dalla speculazione architettonica. Da parte di alcuni progettisti sono state introdotte nell’architettura carceraria italiana tecniche dispositive e compositive relative agli spazi inter-esterni che per certi versi hanno anticipato alcune delle innovazioni proposte dalle riforme. Come accaduto nel Carcere di Sollicciano, a Firenze, progettato e realizzato dal gruppo Mariotti, Inghirami, Campani, negli stessi anni in cui è stata realizzata la riforma penitenziaria. Struttura nella quale le lamelle in cemento nelle logge delle celle sono state realizzate per sostituire le inferriate alle finestre e dove le aree di controllo, piuttosto che posizionarsi in maniera puntiforme, trovavano spazio in corrispondenza degli snodi dei percorsi e dei punti focali delle diverse aree funzionali.

Allo stesso modo significative correzioni alla tradizionale progettazione architettonica carceraria sono rilevabili nelle strutture di Badu ‘e Carros, a Nuoro, e di Cosenza, realizzate tra gli anni Cinquanta e Sessanta da Ridolfi. In entrambe, in maniera quasi del tutto nuova, sono introdotti elementi compositivi e quindi anche spaziali evidentemente trasposti dagli ambiti domestici. In quest’ottica si organizzano anche le numerose strutture carcerarie progettate da Lenci dalla fine degli anni Cinquanta fino agli anni Settanta. La Casa circondariale di Rebibbia, come il Carcere mandamentale di Rimini, la Casa circondariale di Spoleto, come la Casa circondariale di Livorno sono a questo proposito il paradigma di un “maturo” processo di ripensamento dell’edilizia carceraria. Costituiscono una felice sintesi. Tra criteri di igiene edilizia propri di altre tipologie, ma fino ad allora inapplicati alle carceri, e sperimentazioni intraprese nella progettazione di complessi edilizi, senza disdegnare espedienti recuperati dall’osservazione di strutture dedicate a servizi collettivi, come i campus universitari. I 12 mila alberi piantati tra gli edifici, a Rebibbia, la densità inseguita nelle differenti parti della composizione architettonica, così come la ricerca della permeabilità tra interno e esterno del recinto, a Livorno, sono a tutti gli effetti elementi nuovi. Quanto prodotto tra il 1949, anno nel quale viene varato il terzo Piano di interventi di edilizia penitenziaria e il 1977, costituisce, almeno in alcuni casi, l’optimum della cultura architettonica italiana sul tema. Circa 65 complessi che, proprio in relazione alle loro differenze compositive, possono essere annoverati nella tipologia a corpi edilizi differenziati.

Quanto quelle intuizioni siano rimaste ferme al loro status, senza farsi patrimonio comune, lo dimostrano le esperienze contemporanee. Perché questa stagione, che avrebbe potuto essere felice, in realtà è stata preceduta e seguita da fasi nelle quali si sono ripetuti, senza sostanziali differenze, modelli evidentemente sbagliati. Basti pensare a quelli di epoca preunitaria, che costituiscono parte non esigua degli istituti ancora attivi, del tipo a corte, a disposizione stellare o radiale e del tipo multiplo. Basti pensare agli edifici realizzati tra il 1889 e il 1994, progettati ricorrendo al cosiddetto modello a palo telegrafico, costituito da una sequenza di corpi detentivi disposti paralleli tra loro e attraversati da un unico percorso assiale che delimita i cortili esterni. Dalla fine degli anni Novanta sono stati completati complessi che per la mancanza di risorse avevano subito rallentamenti e sono stati realizzati ex novo tre nuovi istituti, quelli di Rieti, Trento e Sassari.

La riproposizione quasi maniacale dei medesimi modelli, senza differenze sostanziali seppure in presenza di situazioni dissimili, sembra dunque caratterizzare la storia dell’edilizia penitenziaria italiana. Quasi immobile, certamente incapace di veicolare suggerimenti e suggestioni. Per uscire da questa lunga, mortificante impasse, bisognerebbe riuscire a ordinare modelli compositi e variabili, pur rispondendo a determinati requisiti imposti dalle disposizioni vigenti. Un obiettivo, questo, tutt’altro che lontano, purché sia possibile un’interazione tra diverse competenze. La consuetudine, almeno a partire dagli anni Ottanta, di scegliere i luoghi nei quali impiantare le nuove strutture, osservando da un lato il basso costo dei terreni e dall’altro l’adeguata distanza dalla città, è un vizio da sanare con una progettazione consapevole. Con una continua ricerca di spazi nei quali la pena non diventi la cancellazione della dimensione umana. Il problema del “nuovo” non può essere disgiunto da quello del “vecchio”. Le scelte iniziali non possono essere estranee a quelle intercorse sull’esistente. Il vasto patrimonio a disposizione, di più antica realizzazione, nei casi nei quali sarà ritenuto possibile, deve essere ripensato. Con una riqualificazione per sostituzione, addizione e integrazione di parti. Ponendo attenzione soprattutto agli spazi aperti, alla loro capacità di rispondere alle esigenze di tutti. Quando non sarà possibile, l’esito non potrà non essere che la dismissione. Ma non diversamente da quanto dovrebbe avvenire per le aree industriali e militari, anche per gli ex complessi carcerari sarà indispensabile procedere alla loro rigenerazione. Evitando così che i vecchi recinti si trasformino in aree di abbandono e degrado.

Solo riannodando fili differenti, riavviando rapporti fugacemente iniziati, si potrà affrontare un tema complesso, ma finora osservato generalmente con distacco. Solo progettando il programma, definendo il quadro conoscitivo completo, si può pensare di affrancare il mondo carcerario da un’avvilente autoreferenzialità. Uscendo dal dilemma, evidentemente semplicistico e metodologicamente errato, tra il sostegno e la contrarietà all’indulto o ad altre misure di clemenza.

“Le mura della città erano fatte per chiudere ma anche per aprire, mentre quelle del carcere servono solo per segregare e respingere. Per questo bisogna abbatterle in qualche modo, metaforicamente, se non fisicamente”. A sostenere questa teoria Giovanni Michelucci, grande architetto del Novecento. Una teoria che aveva a che fare, naturalmente, con l’estetica dell’edilizia carceraria. Ma che guardava al cuore del problema. Cercando di costruire “spazi” che fossero “luoghi”.