La Commissione europea presieduta da Jean-Claude Juncker dà grande importanza a 'Un’Europa che protegge'. Ha voluto la creazione di una Guardia Costiera e di Frontiera europea e nel campo della sicurezza militare ha lanciato un Fondo Europeo di Difesa e un documento di riflessione sul futuro della difesa europea. Sono iniziative opportune ma di modesta portata. Il salto logico ancora da fare è considerare la difesa come una sovranità, una funzione di governo, da trasferire a livello federale. Come è stato fatto con la moneta.

Bonino De Andreis filospinato
Sin dal suo insediamento, tre anni fa, la Commissione europea presieduta da Jean-Claude Juncker ha dato grande importanza ai temi della sicurezza. “Un’Europa che protegge” è diventata una delle parole d’ordine di questo collegio. Il che sembra effettivamente riflettere le preoccupazioni dei cittadini europei, così come vengono registrate dai sondaggi d’opinione di Eurobarometro.

La creazione, nell’ottobre del 2016, e nel tempo record di solo nove mesi, di una Guardia Costiera e di Frontiera europea è stata una prima risposta a questa esigenza di protezione.

In parallelo, la Commissione europea ha rivolto la propria attenzione verso la sicurezza nella sua accezione più dura e classica, ovvero la difesa militare. Anche qui l’esecutivo dell’Unione si muove col conforto dei sondaggi Eurobarometro che consistentemente, dal 2000 a oggi, mostrano che tra il 70 e l’80 per cento dei cittadini europei vede con favore “una politica di sicurezza e difesa comune tra gli stati membri”.

Passando attraverso varie tappe intermedie – tra cui una più stretta cooperazione tra UE e NATO sancita da una dichiarazione congiunta del giugno 2016 a Varsavia – la Commissione si è spinta ancora più avanti lo scorso 7 giugno, con il lancio di un Fondo Europeo di Difesa e la presentazione di un documento di riflessione sul futuro della difesa europea.

Che giudizio dare di questi sviluppi? Tutto dipende, ovviamente, dal punto di vista. C’è in Europa chi non ne vuole sapere di qualunque ruolo militare dell’Unione – la Gran Bretagna, che ormai è fuori, ma anche la Danimarca – perché ritiene che questo sia un terreno di esclusiva competenza NATO. C’è chi è tiepido – tutti i Paesi dell’ex Patto di Varsavia - perché teme di indebolire la NATO e c’è chi è tiepido semplicemente perché è neutrale – l’Austria, Cipro, la Finlandia, l’Irlanda, Malta, la Svezia. Il nucleo dei sei Paesi fondatori, tra i quali c’è l’Italia, è quello più sinceramente convinto che sicurezza e difesa siano, con l’economia, il terreno privilegiato per far avanzare l’integrazione europea.

Se si appartiene, come chi scrive, a quest’ultimo gruppo - con, per giunta, aspirazioni federaliste - il giudizio da dare sulle iniziative finora intraprese dalla Commissione europea è però che sono molto modeste.

La Guardia Costiera e di Frontiera europea è un piccolo contingente di uomini e mezzi che può aiutare le corrispondenti forze nazionali dei paesi membri “che ne facciano richiesta”. È, in altri termini, una piccola cosa che potrebbe persino non essere mai messa alla prova. Potremmo fare molto di più, devolvendo all’Unione l’intero controllo delle frontiere esterne – per merci e persone – senza nemmeno dover cambiare il Trattato, ma non lo facciamo.

Il Fondo Europeo di Difesa si propone di stimolare progetti di ricerca e sviluppo militare svolti insieme da imprese di diversi Stati membri. A leva, cioè nell’ipotesi che gli stanziamenti provenienti dal bilancio comunitario siano in grado di mettere in moto volumi multipli di investimenti provenienti dai bilanci degli Stati membri. A partire dal 2020, la Commissione pensa che impegnando 1 miliardo e mezzo di euro l’anno indurrà gli Stati membri a investirne altri 4. Potrebbe rivelarsi mero wishful thinking, a giudicare almeno da quello che è successo con un’idea analoga, il cosiddetto Fondo Europeo di Investimenti Strategici, altrimenti detto piano Juncker.

Infine il documento di riflessione sul futuro della difesa europea. Questo è un po’ figlio del Libro Bianco sul Futuro dell’Europa, presentato nel marzo scorso. In entrambi i casi si è usata la tecnica delle opzioni (o scenari), che consiste nel presentarne in un qualsiasi numero dispari tale che la scelta del lettore cada su quella apparentemente più ragionevole: la mediana. Con questa logica siamo addirittura sotto il concetto di “difesa comune” (scenario numero tre) per restare nell’ambito della “difesa condivisa” (scenario numero due). Vaghi “maggiori impegni” su base volontaria, nessun quadro istituzionale nuovo. Poco incoraggiante.

Anche perché, solo negli ultimi dodici mesi, sono successe cose di una certa portata. La Gran Bretagna ha deciso di uscire dall’Unione europea. Gli americani hanno eletto un presidente, Donald Trump, per il quale la NATO non sembra essere una priorità. Al punto da far dire a Christya Freeland, ministro degli esteri del Canada – l’altro paese nordamericano dell’Alleanza atlantica – che “contare soltanto sull’ombrello di sicurezza statunitense farebbe di noi uno Stato cliente… e una tale dipendenza non sarebbe nel nostro interesse”. Al punto da far dire alla cancelliera tedesca, Angela Merkel, che “i tempi in cui potevamo contare pienamente sugli altri sono passati” e che “gli europei devono prendere il proprio destino nelle proprie mani”.

L’Unione europea può di certo avere una propria difesa autonoma, se lo vuole. Stiamo parlando, anche senza i britannici, dell’economia più grande al mondo, che conta alcuni tra i Paesi più ricchi, e che ha tra i suoi Stati un membro permanente del Consiglio di Sicurezza, nonché potenza nucleare, la Francia. E autonomia non vuol dire competizione. Al contrario, la NATO avrebbe solo da guadagnare, in efficienza e capacità operative, se almeno alcuni dei paesi europei costituissero una forza militare europea integrata: e pluribus unum è un approccio che gli americani per primi dovrebbero sottoscrivere.

Che non si debba procedere per forza tutti assieme è insito nel concetto di Europa a più velocità patrocinato da qualche tempo ormai dal governo tedesco, nonché dalla possibilità prevista dal trattato vigente di avere nel campo della difesa una “cooperazione strutturata permanente” tra Stati membri che lo desiderino.

E infine si riparla di cambiare il trattato – cosa questa completamente indipendente dall’opportunità, sinora sprecata, di sfruttare appieno le possibilità già esistenti per avvicinarsi a “un’Europa che protegge”, sia nel campo del controllo delle frontiere, sia nel campo della difesa.

Esistono insomma tutte le condizioni perché un nutrito gruppo di Paesi membri punti a qualcosa di più ambizioso di una “difesa condivisa”.

In particolare, se dovesse riaprirsi il cantiere del trattato, allora il salto logico da fare – a settantadue anni dalla fine della seconda guerra mondiale, con britannici e americani che si disimpegnano dall’Europa – è considerare la difesa come una sovranità, una funzione di governo, da trasferire a livello federale. Come è stato fatto con la moneta. E come la creazione della Banca Centrale Europea non ha portato alla scomparsa delle banche centrali nazionali, così la creazione di forze armate europee non dovrebbe portare alla scomparsa degli eserciti nazionali, che potrebbero continuare a esistere su scala più ridotta con compiti di difesa territoriale o come seconde linee, in analogia alla National Guard statunitense.

Torniamo così a un elemento essenziale della proposta di Unione militare (e diplomatica) che fu parte della piattaforma della lista Bonino alle elezioni europee del 1999(1). E cioè l’idea di fare della creazione di un esercito europeo un obiettivo esplicito da perseguire in un quadro istituzionale definito e attraverso una serie di tappe intermedie.

Così fu fatto a suo tempo con l’euro. Tutto cominciò con un comitato di dodici banchieri centrali e tre esperti indipendenti, presieduto dall’allora presidente della Commissione europea Jacques Delors, che presentò un piano in tre fasi per l’Unione monetaria, approvato dal Consiglio europeo di Madrid nel giugno 1989. L’obiettivo finale e le fasi vennero incorporati nel Trattato di Maastricht due anni più tardi. Il quadro istituzionale venne fornito dall’Istituto Monetario Europeo (IME), il precursore della BCE. Ma questa procedura servì proprio ad affermare che un obiettivo finale c’era e che andava raggiunto per passi successivi, i cui passaggi dall’uno all’altro restavano comunque sotto il controllo dei governi.

Quindi è tempo che i governi dell’Unione e la Commissione affermino, al contrario di quanto fanno oggi, che l’obiettivo finale è la creazione di un esercito europeo. Ma siccome nessuno sa, oggi, quale forma questo esercito dovrebbe prendere (quanti e quali mezzi e quanti uomini per ciascuna forza armata, quali missioni, quali dottrine operative etc.), allora diano mandato alle istituzioni pertinenti di mettersi al lavoro per definirla, fornendo allo stesso tempo una data ultima e delle tappe intermedie. Diversamente dall’IME, che dovette essere creato da zero, queste istituzioni, come il Comitato Militare e l’Agenzia Europea di Difesa, già esistono. Il che è un vantaggio non trascurabile.

La ricetta per fare qualcosa in Europa è sempre passata per queste tre cose: un impegno verso un chiaro obiettivo finale, per quanto distante nel futuro; il relativo senso di direzione capace di guidare generazioni successive di politici e burocrati; un quadro istituzionale adatto al perseguimento di quell’obiettivo. Così fu fatto con la moneta; così va fatto, oggi, con la difesa.


Note al testo:

(1)Cfr. Emma Bonino, “A single European Army”, Financial Times, 3 febbraio 1999.