Contratto a tutele crescenti, il diavolo è nei dettagli
Istituzioni ed economia
La legge di stabilità, in previsione dell'approvazione del nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, ha stabilito un fortissimo incentivo economico per chi assume a tempo indeterminato nel solo anno 2015: si tratta della decontribuzione, fino a 8.060 euro all'anno per tre anni (fino a un massimo, quindi di 24.180 euro) per ciascun lavoratore.
Questo incentivo, sommato all'esenzione del costo del lavoro a tempo indeterminato dalla base imponibile IRAP (aliquota da 3,9 a 4,82%), rende il contratto a tempo indeterminato molto più conveniente del contratto a termine. Inoltre, per il contratto a termine è dovuto un contributo aggiuntivo ASPI pari all'1,4%.
Sommando tutti i benefici riconosciuti alle assunzioni a tempo indeterminato rispetto a quelle a termine (IRAP, contributo aggiuntivo ASPI e decontribuzione), il risparmio ottenuto in termini di costo del lavoro è, per il 2015, molto consistente. Tale incentivo economico combinato con le nuove regole può dare luogo, tuttavia, a effetti perversi.
Facciamo qualche esempio.
Un datore di lavoro, ipotizziamo lombardo, ha bisogno di assumere un dipendente con reddito annuo di 30.000 euro per un anno. Se sceglie il tempo determinato, dovrà pagare il contributo ASPI per l'1,4% e l'IRAP sul costo del lavoro del 3,9%. In aggiunta, dovrà versare regolarmente i contributi sociali. Mettiamo invece che il medesimo imprenditore intenda assumere quel lavoratore con un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti: risparmierebbe ASPI e IRAP e, in più, sarebbe esentato dal pagamento dei contributi INPS per 8.060 euro. Insomma, nel secondo caso, risparmierebbe quasi 10.000 euro pari a circa 4 mensilità.
Certo, si dirà, però il secondo è un posto fisso.
E, infatti, nel caso in cui, come programmato, l'azienda decidesse di licenziarlo senza un giustificato motivo, dovrebbe corrispondergli un'indennità risarcitoria che, per il primo anno sarebbe pari a 4 mesi (2 in caso di conciliazione). In questo caso dunque, i due strumenti contrattuali sarebbero almeno equiparabili dal punto di vista economico (con la possibilità di un risparmio di 2 mensilità in caso di soluzione conciliativa), includendo nei costi del contratto a tempo indeterminato anche quelli dovuti per l'indennità di risarcimento.
Se invece il rapporto di lavoro preso ad esempio dovesse durare 2 anni, il vantaggio a favore del contratto a tempo indeterminato sarebbe decisivo e maggiore. Il risparmio economico sarebbe pari a 20.000 euro in totale (8 mensilità), detratta l'indennità di licenziamento che sarebbe pari, nuovamente, a 4 mesi (2 in caso di conciliazione). Ci sarebbe, in questo caso, un risparmio di almeno 10.000 euro.
Ancora, il vantaggio crescerebbe ulteriormente in caso di durata di 3 anni: vantaggio di 30.000 euro mitigato dal pagamento di un'indennità di 6 mesi (3 in caso di conciliazione) e quindi pari ad almeno 15.000 euro.
Negli anni successivi al terzo, non è prevista un'ulteriore decontribuzione e quindi il vantaggio di cui si tratta decrescerebbe fino ad annullarsi intorno al sesto anno.
In altre parole, se un datore di lavoro vuole assumere un dipendente a termine per tre anni (limite massimo previsto dalla legge) o addirittura per sei, può trovare sponda vantaggiosa nel nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.
Il legislatore, infatti, sembra essersi "dimenticato" di inserire una norma che imponga la restituzione dei contributi esentati in caso di licenziamento ingiustificato comminato entro i primi 6 anni di rapporto.
Insomma, non si capisce la ragione per cui un datore di lavoro dovrebbe stipulare, nel corso di quest'anno, un contratto a tempo determinato, considerando peraltro i vincoli che questo tipo di rapporto impone (ad esempio la non recedibilità fino alla scadenza, nemmeno per giustificato motivo, o i limiti quantitativi stabiliti dalla legge).
Ci si chiede quale sia il senso di incentivare (e con diversi miliardi di euro) una tipologia di contratto rispetto a un'altra, per un solo anno e in modo così distorsivo. Forse la ragione è che, alla fine dell'anno, il governo, grazie a questo sistema normativo, potrà senz'altro esultare al successo quando verificherà che, a differenza del 2014 (quasi ¾ dei contratti stipulati a termine), nel 2015 quasi tutti i contratti saranno stati a tempo indeterminato. Tralasciando che con l'incentivo, profumatamente finanziato dallo stato, i datori di lavoro potranno pagare l'indennità per il licenziamento ingiustificato. E tralasciando anche che quello che una volta era il "posto fisso", da qualche giorno, non esiste più. E salvo comunque il fatto che, dal 2016, il contratto a termine tornerà a essere un'opzione vantaggiosa.
Sarebbe forse stato meglio utilizzare quei fondi per cose più utili e proficue di un provvedimento che nel migliore dei casi favorisce arbitraggio tra forme contrattuali ormai sostanzialmente equivalenti e nel peggiore è puro strumento di propaganda in vista di futuri appuntamenti elettorali.