Sebbene risicato, il successo del sì al referendum costituzionale del 16 aprile scorso, che ha consegnato nelle mani di Erdoğan un potere pressoché assoluto, porta con sé interrogativi nuovi e inquietanti su una Turchia ormai sempre più lontana dall’Europa, dalla democrazia e dalla laicità.

Ottaviani Erdogan refer

Lo stemma dell'Impero Bizantino era composto da un'aquila bicipite che guardava a Oriente da una parte, a Occidente dall’altra. Sembra quasi una maledizione, una beffa della sorte, la vendetta di una civiltà scomparsa per far posto a un’altra, ma dal 1453 quello è diventato il destino, a volte la dannazione, prima dell'Impero Ottomano e poi della Turchia moderna.

Una dicotomia emersa con tutta la sua forza dopo il referendum costituzionale dello scorso 16 aprile, che ha consegnato al presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdoğan, “superpoteri” che esercitava in parte già da tempo, ma ora sanciti per legge, con i quali potrà guidare indisturbato il Paese almeno fino al 2029, ammesso che riesca a farsi rieleggere. Cosa che, però, secondo molti appare scontata. Quando c’è di mezzo la piazza, sembra che proprio nulla possa ostacolare la marcia dell’ex promessa mancata del calcio turco.

Eppure chiuderla così, con la Mezzaluna spaccata in due ed Erdoğan nuovo Sultano, anche se lui preferisce Reis, della Yeni Türkiye sarebbe un po’ troppo facile. Il voto evidenzia fratture profonde e irreparabili nel Paese, che impatteranno sull’Europa in maniera ben più profonda e duratura degli atteggiamenti e messaggi del Capo dello Stato turco. Di certo la Turchia di oggi è lontana sia dalle caratteristiche di democrazia e laicità con le quali eravamo stati abituati a conoscerla, sia dalla prospettiva europea.

Una vittoria a metà

Qualcuno ha addirittura parlato di “vittoria di Pirro”, affermando che con l’approvazione della riforma costituzionale in realtà sia iniziata una fase di indebolimento fino alla decadenza del super presidente. Nessuno ha la palla di cristallo e la Turchia è un Paese imprevedibile, ma al momento questo mi pare più un auspicio (peraltro comprensibile) che un’ipotesi concreta.

Di certo, invece, c’è che la vittoria del sì al super presidenzialismo di Erdoğan è stata tutto fuorché netta. La riforma è passata con il 51,41% dei consensi. Se si considerano gli sforzi economici fatti per sostenere una campagna referendaria imponente e il fatto che il 90% dei media era a favore del presidente, di sicuro non può essere definita un trionfo. L’Akp, il Partito islamico per la Giustizia e lo Sviluppo, al governo nel Paese dal 2002, ha perso, di pochissimo, Ankara e Istanbul. Quest’ultima è la città di cui Erdoğan è stato sindaco e da cui è partita la sua ascesa politica. Il Capo dello Stato, rispolverando il suo passato calcistico, ha detto che non importa se si segnano due goal oppure cinque, l’importante è vincere. Vista la posta in gioco, ossia un potere pressoché assoluto e difficilmente contrastabile, viene spontaneo dargli ragione. Ma se Erdoğan ostenta tanta sicurezza è anche perché conosce la composizione dei due fronti.

La ‘corazzata Erdoğan’

Ufficialmente, nonostante le accuse di brogli che piovono da tutte le parti, il sì alla riforma costituzionale è stato votato da circa 25 milioni di persone. A differenza del fronte del no, che analizzeremo fra poco, questi sono in gran parte elettori che hanno votato per prima cosa il presidente, più che il suo progetto. Se si escludono una parte di nazionalisti e i curdi in due province del sud-est, il sì è stato approvato soprattutto dai milioni di persone che vivono negli sterminati territori dell’Anatolia, dove la riforma è passata con percentuali fra il 60 e il 75%, praticamente un plebiscito.

Questo indica anche un dato molto importante: l’elettorato dell’Akp, il partito di maggioranza un tempo votato da tutti, è molto meno trasversale rispetto a qualche anno fa e inizia a essere sempre più connotato non solo geograficamente, ma anche ideologicamente. Al netto di chi ha votato il sì sperando che il Paese riprenda a crescere come un tempo e per una voglia di (fittizia) normalità, la stragrande maggioranza ha approvato il progetto dell’uomo solo al comando, in uno stato con una connotazione religiosa sempre più forte e mire espansionistiche in politica estera che richiamano il passato ottomano.

Chi dice no e chi tace

Più complesso spiegare il fronte del No. Qualcuno ha detto che con questa parte di Turchia l’Europa deve mantenere un canale aperto. Il problema è che questa fetta di Paese ha una composizione estremamente complessa e solo una percentuale, nemmeno molto estesa, può essere definita filoeuropea. Il punto su cui le opposizioni non si incontrano, e quasi sicuramente non lo faranno mai, è la questione curda. Gli elettori del Chp, il partito repubblicano del Popolo, principale voce dell'opposizione (fondato da Mustafa Kemal Atatürk, il “creatore” della Turchia moderna) si dividono in due grandi famiglie: i vetero-kemalisti, ai quali stanno a cuore tanto la laicità e la democrazia quanto l'indivisibilità dello Stato turco, e quelli che hanno un orientamento più socialdemocratico e filoeuropeo.

La nota più fuori da questo coro del no a più voci è rappresentata dai nazionalisti, persone di destra, per la precisione della destra laica turca, che sono sia contro il disegno religioso di Erdoğan, sia contro l'offuscamento storico della figura di Mustafa Kemal Atatürk, sia contro l’Ue. Fanno capo al Mhp, il Partito Nazionalista, che però in sede parlamentare e referendaria ha appoggiato il disegno costituzionale e che adesso è la formazione politica che vede il suo elettorato più spaccato.

E poi ci sono i curdi, che paradossalmente rappresentano ancora il vero problema della Turchia moderna, ma che al momento hanno il partito più riformista e filoeuropeo e sembrano gli unici in grado di attrarre tutta quella parte di elettorato turco stanco della 'vecchia politica' (quella di repubblicani e nazionalisti) e preoccupato per la deriva inarrestabile di Erdoğan. Infine, c'è tutta una galassia di movimenti non rappresentati in parlamento, ancora orfani dei partiti socialisti e comunisti soppressi fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta.

C’è poi chi è contro, ma per paura o per altri motivi non può parlare. Questo è il caso di tutti quegli elettori che hanno votato no ma che non sono scesi in piazza nei giorni successivi al referendum, sostanzialmente perché temevano di finire vittime dello stato di emergenza, in vigore nel Paese ormai da quasi un anno. Il presidente ha parecchi nemici anche nel suo stesso partito, l’Akp. Una corrente importante, ma non tanto da mettere in discussione la leadership di Erdoğan, era contraria al referendum perché molto scettica sulla riforma costituzionale. In caso di vittoria del no, gli analisti si erano spinti fino a prevedere una resa dei conti che avrebbe potuto portare addirittura alla scissione. L’affermazione, soprattutto personale, di Erdoğan ha portato a una ricomposizione (forzata) della crisi interna.

Reminiscenze imperiali

Non è un’esagerazione dire che il dato più significativo per noi europei - e in parte anche per il presidente turco - è quello sul voto all’estero. In molti Paesi dell’Unione Europea (non l’Italia, per fortuna) il sì alla riforma costituzionale ha ottenuto un ampio consenso, con percentuali tra il 54 e il 70%. A votare in modo convinto sono stati soprattutto i turchi in Germania, Olanda, Belgio, Austria, Francia e Danimarca. Tutti Paesi con cui la Turchia ha avuto più volte da ridire per problemi legati all’integrazione, ma anche all’adesione di Ankara al club di Bruxelles. Con Berlino e l’Aja, inoltre, Erdoğan ha avuto un duro scambio di accuse a causa del divieto di organizzare comizi referendari imposto dai due governi ai ministri turchi.

Un successo che è un chiaro segnale di una radicalizzazione crescente delle comunità turche all’estero, e dell’influenza che il Capo dello Stato riesce a esercitare su queste, soprattutto in chiave antieuropea e antioccidentale. Il rischio, concreto, potrebbe estendersi presto a quelle musulmane, e questo per il presidente è uno stimolo per continuare con la sua politica estera sempre più spregiudicata e con ambizioni che ormai possono essere definite neoimperiali.

In un Mediterraneo sempre più instabile e con crisi ancora aperte come quella siriana, questa Yeni Türkiye rischia di rappresentare più un problema che un’opportunità.