Il giusto no dell'Europa a una Turchia fuori controllo
Istituzioni ed economia
La notizia è che il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che chiede il congelamento dei negoziati per l’adesione della Turchia all'Unione Europea. La votazione è passata con una maggioranza larga: 479 voti a favore, 37 contrari e 107 astensioni. Si tratta di una risoluzione non vincolante: la Commissione Europea non verrà condizionata direttamente dal suo esito, ma dovrà comunque tenerne conto.
Questi, in sintesi, sono i fatti. Conviene ora fare un minimo di analisi, cercando di distaccarsi tanto da un atteggiamento di chiusura quanto, dall’altra parte, da uno ugualmente nocivo di affezione fino alla mistificazione della realtà.
Quello che sto per scrivere farà storcere il naso a qualcuno. Ma un giornalista ha un ruolo diverso da quello di uno storico e di un politico. È un testimone del suo tempo e, se la realtà che osserva cambia, ha il dovere di dirlo.
Quanto fatto dal Parlamento Europeo ieri è il minimo sindacale. L’errore, casomai, è stato non averlo fatto prima. In molti temono che dopo la decisione di ieri la Turchia sia persa per sempre. Ebbene, devo dare loro una brutta notizia, ma anche una che consolerà parzialmente il loro dispiacere: la Turchia è persa almeno dal 2009 - ammesso che prima ci fosse un’autentica voglia di adesione in tutto il partito di maggioranza Akp, e questo è tutto da dimostrare.
Resta il fatto, inoppugnabile, che Ankara a partire dal 2009 ha cominciato a distaccarsi progressivamente. Prima con una politica estera sempre più "esuberante" che ha dato un contributo pesante alla destabilizzazione della regione, che stiamo pagando anche noi. Poi con un atteggiamento sempre più intransigente, fino ai toni arroganti assunti da Erdogan dopo il 2013, quando, in seguito alla repressione della rivolta di Gezi Parki, si è assicurato un potere sempre più assoluto non solo sul suo Paese, ma anche, soprattutto ai fini dell’ingresso in Europa, sul suo stesso partito, mettendo progressivamente a tacere quelle correnti, non numerose e nemmeno determinanti, ma esistenti, dell’Akp che con Bruxelles avrebbero voluto trattare con ben altra disposizione e forse fede migliore.
La votazione di ieri, quindi, non è un regalo a Recep Tayyip Erdogan, che così potrà continuare a fare quello che vuole, dentro e fuori il suo Paese, ma rappresenta il naturale epilogo di una questione che è stata gestita dall’Unione Europea con pressappochismo, superficialità, mancanza di visione del futuro e reticenza. Ma Erdogan, dall’altra parte, che cosa fare ha iniziato a deciderlo almeno dal 2011, quando con le terze elezioni consecutive vinte aveva ormai il controllo (per investitura democratica) sul Paese. E l’Europa non è mai stata al centro delle sue priorità. Né dal punto di vista ideologico, né da quello pratico, visto che, ancora oggi, nonostante la politica di avvicinamento alla Russia e al Paesi arabi, il 45% dell’export turco è diretto nel Vecchio Continente e dal 2002, dall’inizio dell’Era Erdogan, il 75% degli investimenti stranieri diretti è arrivato sempre dal Vecchio Continente.
Un piccolo esempio per dire che, se si perde, si perde in due, e quindi i toni ultranazionalisti e antioccidentali che in questi giorni in Turchia hanno toccato vette mai viste prima sono quantomeno fuori luogo. Il presidente turco ha da tempo inaugurato un giro di alleanze sempre più ondivago, che ha portato il Paese lontano, e per Paese intendo prima di tutti il suo popolo. E questo sarà il danno più difficile di tutti da riparare, un domani.
L’Europa ha sbagliato? Sì, enormemente. Ha sbagliato nell’atteggiamento di partenza, dove di fronte al capitolo ‘Turchia in Ue’ ha sempre avuto 27 pareri diversi che spesso cambiavano al mutare degli eventi. L’Italia, in questo caso, rappresenta uno dei pochi Paesi che hanno tenuto un atteggiamento costante, coerente e corretto.
Ha sbagliato, l'UE, a dimostrarsi troppo rigida con Ankara su alcuni capitoli, prima di tutti Cipro, proprio quando da parte turca c’era la volontà almeno di intavolare un dialogo per mettere a posto le cose. Ha sbagliato quando i segnali della deriva autoritaria di Recep Tayyip Erdogan sono diventati sempre più evidenti - i giornalisti finiscono in carcere da anni, non da dopo il golpe. Ha sbagliato quando la piazza di Gezi Parki è stata soffocata nella violenza e quando le elezioni del novembre 2015 si sono tenute in un clima che definire 'poco sereno' è riduttivo. Se fosse intervenuta prima, e per prima intendo intorno al 2008-2010, quando la situazione era ancora (forse) sanabile, Erdogan oggi sarebbe un leader molto meno potente. Avrebbe all’interno del suo stesso partito un’opposizione più efficace che avrebbe impedito la deriva autoritaria e chissà, magari, anche una parte dei danni combinati in politica estera.
La mia opinione, pur essendo stata per lungo tempo una convinta sostenitrice dell’adesione della Turchia all’Unione Europea, è che con questa votazione si sia voluto dare un primo chiaro avvertimento a un leader che esagera da tempo e che adesso sembra molto più impegnato a fare squadra con Putin e a corteggiare Donald Trump che a intavolare un sereno e costruttivo cammino verso la Ue.
Ufficialmente la mozione è stata approvata per le purghe seguite al golpe fallito dello scorso 15 luglio. Personalmente credo sia anche un segnale inviato a un leader da tempo fuori controllo e che pensava, con l’accordo (vergognoso) sui migranti, di sedersi ai tavoli europei con le sue sole condizioni. In quest’ottica, era francamente ora che l’Europa, pur con tutte le sue imperfezioni e gli errori elencati sopra, dimostrasse di essere un’istituzione internazionale e non un 'portacastighi'.
Qualcuno si starà chiedendo dove sia la parziale buona notizia a cui accennavo all’inizio. Nella vita non c’è niente di eterno e le relazioni internazionali non fanno eccezione. Questo non è un addio. Ma perché si torni in contatto e sia un contatto finalmente costruttivo ci potrebbe volere molto, molto tempo. Purtroppo, in questi casi, non vale ‘l’effetto elastico’. La Turchia è degenerata nelle sue istituzioni e anche nella gente. L’Akp è da tempo commissariato e ha cambiato la sua struttura, che rimarrà poco favorevole a Bruxelles almeno fino a quando Erdogan starà al potere.
Ma il problema più grosso è la società. Qualcuno dice che Erdogan prima o poi passerà e la Turchia resta, e questo è indubbio. Resta però anche la Turchia a cui Erdogan ha dato vita e che continuerà a forgiare finché starà al potere (si presuppone ancora a lungo). Una Turchia diversissima da quella del 2002 e che chissà cosa sarà diventata fra 30 anni.
Alla luce di queste considerazioni, il voto di Strasburgo è un voto, sia pur dolorosamente per chi come me credeva ad Ankara nella Ue, giusto e responsabile.
La Turchia sta cambiando. Bisogna trovare un nuovo modo per rapportarvisi. E, al netto di tutti gli errori imperdonabili commessi da Bruxelles, a partire da un certo momento, è stata la Turchia stessa a volerlo.
C’è poi l’eventualità, sarebbe meglio dire l’utopia, che Erdogan faccia un passo indietro e torni quello del 2005. Questa sarebbe la notizia più bella per tutti, dentro e fuori la Turchia. Ma lo stato dell’arte al momento consente solo di sognare a occhi aperti. Che il capitolo Turchia, almeno, serva all’Europa per pensare a un'occasione storica persa e riflettere seriamente su se stessa.