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Ieri si sono celebrati i caucus in Iowa e la cosa ci riguarda in maniera diretta, più di sempre. C'è un elefante nella stanza – non tanto e solo per modo di dire visto che l'elefante è il simbolo del partito repubblicano americano – e quest'elefante ha le fattezze di Donald Trump, che com’era prevedibile e ampiamente previsto ha inaugurato con oltre il cinquanta percento dei suffragi la sua cavalcata verso la probabilissima nomination; il pernicioso tycoon s'appresterebbe a stravincere le primarie e rischierebbe di vincere anche le presidenziali, perché Biden è quel che è e ha l'età che ha e sulla sceriffa Kamala Harris, quattro anni fa brillante promessa del partito democratico anche in una prospettiva post-bideninana, è calato il silenzio.

A sentire quanto ha annunciato tronfio come sempre mesi fa, Trump dalla Casa Bianca proverebbe a imprimere una svolta autoritaria e all'occorrenza “controinsurrezionalsita” (cioè repressivista) in politica interna, inaugurando il suo mandato con un giorno di dittatura – ipse dixit – per un veloce repulisti politico-amministrativo, ma sappiamo che una dittatura di un solo giorno non s’è mai data; e adotterebbe una linea convintamente isolazionista direttamente e indirettamente putiniana in politica estera, ripristinando ed estremizzando l’unilateralismo dei suoi primi quattro anni con tanti saluti alla Nato e a chi ci sguazza da viziato e pretenzioso free rider (e cioè primariamente noi).

A titolo di avvisaglia il Senato USA già trumpizzato ha da ultimo chiuso i rubinetti a Kyiv. Qui in Italia fatichiamo a realizzare quanto questo worst case scenario verosimilissimo sia grave sia in assoluto sia relativamente alle sorti di noi europei, noi che fra l’altro pur investendo complessivamente centinaia di miliardi di euro in difesa siamo di fatto quasi smilitarizzati perché del tutto scoordinati e sempre riluttanti – da ultimo è stata ed è ancora una volta una coalizione a guida angloamericana ad agire, nella fattispecie a sporcarsi le mani a tutela dei nostri interessi sul Mar Rosso.

È verosimilissimo, questo scenario, anche perché Trump vanta un esercito di alleati inconsapevoli nelle più prestigiose università Usa, nella generazione Z, nei millennial e nei chierici come sempre traditori: ci si riferisce, più nello specifico, alla campus left americana intossicata di post-strutturalismo, a giovanissimi e giovani europei schiavizzati dai loro smartphone e dall’attivismo liberal dal divano di casa e agli inetti adolescentizzati che affollano il dibattito pubblico ormai anche oltreoceano.

Per molta di questa gente sbagliare i pronomi con cui rivolgersi a chicchessia è assai meno perdonabile che invocare un'altra soluzione finale per gli ebrei, israeliani e non israeliani, perché in quel caso il “contesto” cosiddetto va inderogabilmente tenuto in considerazione, un genocidio se lo stanno un po' cercando, no?, portando avanti loro stessi la guerra genocidaria (!) per la quale sono sul banco degli imputati dell’Aja con grande compiacimento degli Stati canaglia mandatari di Stati esperti in genocidio per averne fatto e continuare a farne pratica.

Questa schiera di sciocchi e ben pasciuti statunitensi innamorati di autocrati e terroristi, si diceva, forma un esercito di alleati di Trump sia per polarizzazione (un estremismo alimenta quello speculare) sia, per quel che concerne la politica estera, per collateralismo (un americano isolazionista è antioccidentalista nei risultati del suo isolazionismo; un estremista intersezionalista è antioccidentalista nei suoi principi e nelle sue speranze multipolariste – poi su Russia e Ucraina la campus left è tiepida perché quella è una guerra tra bianchi, non c'è nessun feticcio terzomondista da esibire e nessuna kefiah da indossare e nessun predone o pirata da romanticizzare, c'è al più una lieve simpatia per il Cremlino perché tutto quel che è Nato o vi orbita intorno è cattivo per definizione).

Certo, la cifra di politica estera del primo Trump fu più che altro fatta d'improvvisazione e ambiguità, da un lato voi europei ve la dovete cavare da soli, dall'altro muso duro con la Cina, provvidenziale neutralizzazione di Quasem Soleimaini e ambasciata Usa in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, mentre l'onta dell'isolazionismo a dir la verità grava tutta sul suo predecessore Obama, di cui Biden era vicepresidente. Però l’improvvisazione e l’ambiguità, per tacere di tutto il resto, sono lussi che non possiamo più permetterci, né possiamo permetterci a monte il pericolosissimo sfascismo vichingo già manifestatosi col grave assalto al Campidoglio tre anni fa.

Ci sarebbe, forse, una via d'uscita, una way out si direbbe da quelle parti. Assegnare a una sola persona o più generalmente a un solo fattore una funzione taumaturgica è ingenuo e approssimativo su tutti i fronti, soprattutto nell’anno più elettorale di sempre; ma è dell'inquilino della Casa Bianca che si sta discutendo, dunque dell'azionista di maggioranza dei destini del fronte euroatlantico e meno direttamente del mondo intero. Il cambio di rotta, perché quella su cui stiamo insistendo ci porta al caos o forse a una apocalisse sino-russa, il cambio di rotta ha il volto e il nome di una donna, il volto irresistibile e il nome brandizzabilissimo di Nikki Haley, ex combattiva ambasciatrice Usa in quel postaccio che è diventato l'Onu e adesso combattiva candidata antitrumpiana alle primarie del partito repubblicano.

Certo, il suo tendenziale moderatismo potrebbe urtare le sensibilità progressiste per diversi motivi e quelle più conservatrici per i motivi opposti, ma il tempo di fare gli schizzinosi è finito ed è il caso di cedere alla forza seduttiva centripeta esercitata dall’ex ambasciatrice.

Haley, ieri classificatasi terza con uno scarto non rilevante da Ron DeSantis ma assai meglio piazzata di quest’ultimo nei prossimi appuntamenti elettorali, potrebbe molto ottimisticamente arrestare la resistibile ascesa del tycoon; se contro tutti i pronostici ci riuscisse, nella fase successiva manderebbe in pensione l'ottantunnenne Biden senza particolari difficoltà, ereditandone la linea occidentalista (quel che ci riguarda…) ma potenziandola come si deve con le sue forze e le sue convinzioni che sono visibilissime, vigorose, lucidissime: anzitutto la convinzione che sia urgente soffocare in culla le pretese imperialiste e genocidarie e destabilizzatrici dei barbari in piumino Loro Piana o sartoria turca o cinese o ancora in palandrana, pretese alimentate da un quindicennio o più di corda lenta, per evitare di giungere a quell’escalation che i professionisti dell’antioccidentalismo addebitano all’arroganza euroatlantica anziché alla sua recente e catastrofica ritirata (il capovolgimento della realtà è un vecchio vizio staliniano che evidentemente è faticoso abbandonare).

Attorno al Presidente uscente c'è invece un annebbiamento molto allarmante, c'è da ringraziare il cielo e forse l'establishment di cui s'è circondato se su Ucraina, Medio Oriente e Cina i suoi passi non sono incerti come quelli che fa scendendo dal palco al termine delle conferenze stampa.

Certo, i risultati di ieri e più generalmente i sondaggi sono angoscianti nella perentorietà della forbice tra Trump e Haley, ma se la prossima settimana il voto nel New Hampshire – dove lo scarto è di “soli” sette punti – la incoronasse regina della rimonta, grandi finanziatori per il momento rassegnati ed establishment vario potrebbero ritenere fattibile il clamoroso plot twist. Qui non resta che incrociare le dita e sperare che al cospetto dei numeri la nobile America lincolniana faccia prevalere la strategia sulla tattica, perché come già detto Haley dovrebbe scalare montagne per battere Trump ma, dati alla mano, passeggerebbe in pianura contro Biden; c’è da sperare, insomma, che nelle prossime settimane la nobile America lincolniana faccia prevalere l’ottimismo della volontà sul pessimismo della ragione.