La non vittoria dei non partiti. Il 25 settembre e il meccanismo di voto ‘da ultima spiaggia’
Istituzioni ed economia
Il Movimento 5 Stelle, anche quello "personalistico" di Conte, è un non partito senza sedi e radicamento territoriale.
Fratelli d'Italia è un partito "erede" (e in ogni eredità c’è un tradimento) che da tempo ha scelto il sovranismo - declinazione politica anglosassone - per non fare i conti con una sempre auspicabile e rimandata, se non rinnegata transizione liberal-conservatrice.
Forza Italia è un Partito "occasionalista" in nuce e pertanto, come il suo immarcescibile leader, è alternativamente craxiano, liberista, tradizionalista, corporativo, bigotto e libertario.
La Lega di Salvini è un partito proto-sovranista già pronto, però, al ritorno al passato e a una nuova (?) declinazione del nordismo – quella del regionalismo differenziato – sempre che si riesca a disarcionare l'uomo del Papeete.
Il Partito Democratico, a parte il bel nome evocativo, è anch'esso in crisi di identità, a livello ontologico.
Una crisi, cioè, per così dire "originaria", che precede la sua stessa travagliata nascita: con le fonti della confusione ideologica odierna, che retroagiscono al fallimento dell'eurocomunismo, al rifiuto del PCI berlingueriano di aderire alla socialdemocrazia, di deporre il trito mito "rivoluzionario" da ultimo virato in senso giustizialistico - con l'abuso della retorica della questione morale - verso un idolo sostitutivo - il primato etico della sinistra, del partito degli ottimati - che è giunto fino alla sconfitta odierna, passando dal mancato Partito della Nazione e dal Partito della ZTL.
Questo è il contesto politico "liquido" in cui si sono svolte le ultime elezioni generali italiane.
Liquidità propria, inoltre, di un elettorato confuso dalle tante crisi succedutesi, dal deficit culturale che si accompagna alla postmodernità digitale e social, fiaccato da una insicurezza invincibile che porta a "provare" l'ultimo leader sulla scena mediatica, prima di ingrossare le fila del non voto.
Gli stessi ottimi risultati numerici della Meloni - già annunciati dai sondaggi - da lei stessa però ridimensionati nell'attribuzione generosa dei collegi uninominali agli alleati (evidentemente conscia dell'enormità e dell'evanescenza del consenso contingente), non ci dicono nulla in termini di coscienza popolare, di vere scelte collettive consapevoli, di radicamento ideologico, di una classe dirigente formata e preparata.
Questi numeri, infatti, palesano lo stesso meccanismo "da ultima spiaggia" che ha gonfiato negli anni Salvini prima di riportare la Lega a risultati percentuali a una cifra.
Ed allora possiamo dire, in sintesi, che i non partiti hanno non vinto, sconfiggendo i loro simili dialettici, essi stessi negativi. Ne esita, dunque, una dialettica senza sintesi, senza determinazione, che non depone bene per il Paese.
A trionfare, a ben vedere, sono stati i "fatti" nudi e crudi, privi di mediazione politica, di analisi, di critica, di possibile superamento: potenti a tal punto, nella loro brutalità, da trascendere il valore dei leader che li hanno veicolati.
Leaders che hanno ricoperto non un ruolo di guida, ma "fantasmatico"; senza indicare nessuna direzione nuova, senza prospettare soluzioni e migliorie di buon senso e ragionevoli, si sono limitati a presentarsi come "portavoce" di interessi esistenziali, di sussistenza, privati, intimi, egoistici, impolitici.
Ecco allora i due fatti principali, i fatti vincenti:
1. Il reddito di cittadinanza che ha mosso elettoralmente sulla difensiva l'ex ceto medio, ormai impoverito, vittima delle troppe emergenze in atto e preoccupato della tenuta di uno strumento introitato come salvavita;
2. l'immigrazione clandestina, potenziata dalla guerra alle porte di casa, che ha ingenerato un riflesso potente di chiusura a riccio nei propri confini - spirituali innanzitutto - realizzando un complesso intreccio tra patriottismo securitario e paura di tutto ciò che si muove fuori dal nostro (ridente?) giardino.
Questi "fatti" hanno determinato il risultato elettorale, premiando quindi non le strategie politiche, le prospettive, le visioni produttive di futuro (un nuovo laburismo o un nuovo tipo di gestione dei flussi stranieri) ma la traduzione letterale degli eventi: la dittatura dei fatti, appunto. Sono stati premiati, in breve, non i coraggiosi (qualcuno in campo c'era) impegnati nell'allargamento della "frontiera", ma gli "indiani" con l'orecchio appoggiato sui binari per intercettare - ed evitare e boicottare - il "nuovo" che potrebbe imporsi anche con l'esercizio del voto.
Qualcosa va detto anche per il quarto polo autonomista, sedicente liberale, guidato da Calenda e Renzi. Il significato politico del ruolo epocale esercitato (ben più significativo dello striminzito risultato percentuale incamerato come "partitino" centrista) ce lo racconta il collegio senatoriale uninominale di Roma Centro: la candidatura pseudo identitaria di Calenda - contro le destre indicate come avversarie del buon senso e del buon governo - raggiunge, perdendo, l'obiettivo di battere "l'alleata" liberale Emma Bonino e di far vincere la candidata della "destra peggiore d'Europa (cit. Calenda)". Negativo che si aggiunge a negativo, ancora una volta.