pietra grande

Il dibattito infuria all'interno di circoli appassionati, ma ristretti sulla necessità o meno di avere un "fronte comune" o un'alleanza più organica tra quei piccoli partiti che si collocano più o meno tra PD e il centro (sempre meno centro) destra. Sto parlando di +Europa, Azione e Italia Viva.

Da parte dei militanti di questi partiti, soprattutto di Azione e +Europa (Italia Viva sembra considerarsi autosufficiente grazie al suo visibilissimo leader), si lamenta il fatto che di fatto siano i leader di questi partiti ad impedire un’unione che, ove avvenisse, offrirebbe prospettive fantastiche al nuovo partito “unito”. La situazione è arrivata al punto in cui, consapevoli dell'umore dei militanti e dei sondaggi non favorevoli, le leadership di Azione e +Europa sembrano scaricare l’una sull’altra la responsabilità dell’impasse e l’accusa di impedire o ritardare l’agognata confluenza e la “fusione” dei due soggetti.

Io che sono abituato da avvocato ad insinuare dubbi e che sono da tempo partecipe delle vicende di quest’area politica vorrei a questo punto insinuarne uno tra questi eccitatissimi militanti. Il dubbio è se, allo stato attuale, esista un elettorato che abbia una qualche sostanza pronto a votare questo ipotetico partito di centro liberale (tralascio di spiegare perchè “centro” vada inteso nel mio discorso in senso di “centrale”, e non di “centrista”). Quando parlo di sostanza direi, almeno, da 2 milioni di voti in su, risultato che sarebbe il minimo a cui una "fusione" debba aspirare per non essere soltanto un esercizio vuoto che magari determina la fine di entrambi i partecipanti. We have seen this before, in tempi nemmeno troppo lontani.

Ecco, questi 2 milioni di elettori ci sono? Sommare il 2% di uno al 2% percento di un altro non è operazione utile. A parte che i sondaggi sono sempre imprecisi, il 2% di +Europa potrebbe includere voti di persone che non voterebbero un partito con dirigenti provenienti da Azione e, naturalmente, viceversa. Anche se il paragone con il mercato non politico non calza sempre, nessuna impresa che voglia fondersi con altra presume che ogni sicurezza guadagnerà le quote di mercato dell'altra: il prodotto potrebbe cambiare, le sinergie sperate non realizzarsi, un altro concorrente ruba il “tuo” mercato mentre tu sei impelagato nella riorganizzazione interna post-fusione…

No, se si vuole fare questa operazione, che non è cosa mai semplice, bisogna lasciar da parte l’aritmetica dei sondaggi, i risultati delle elezioni più recenti e i voti presi dai candidati dell'uno o dell'altro partito in situazioni completamente diverse (per esempio, in liste di o con altri partiti); bisogna per un momento lasciar da parte i militanti e gli iscritti che fanno sempre effetto "bolla" e sovra o sotto-rappresentano le tendenze di fondo degli elettori e guardare all'elettorato potenziale. Ponendosi questa domanda: con un PD che traballa, ma che comunque, specie al Nord, è ancora capace di esprimere una classe dirigente che, diciamo, non sembra uscita da Rifondazione Comunista, con Forza Italia claudicante ma ancora esistente e con Italia Viva che ambisce a quella posizione "di centro" e un leader con un suo seguito personale nel paese sempre più limitato, ma solido, qual è oggi l'elettorato che ancora non è rappresentato? Soprattutto qual è l’elettorato che ha “voglia” di essere rappresentato diversamente? Su che cosa esattamente cerca rappresentanza? Per che cosa sarebbe disponibile a cambiare le preferenze di voto?

Un partito non serve per fare testimonianza o agitazione politica, ma per rappresentare un certo elettorato che vuole raggiungere alcuni obiettivi o tutelare alcuni interessi e non trova un'offerta politica che gli sembri essere in grado di provvedere a questi fini. Con la polarizzazione del sistema politico evidenziata anche dalle elezioni in Emilia Romagna dove chi ha paura della “destra dei citofoni” tende a rifugiarsi in qualcosa che percepisce avere più chances di esprimere una maggioranza, a questa domanda diventa complesso rispondere. Ma è la domanda essenziale. Per strappare i 2 milioni di voti in un'eventuale prossima elezione nazionale che - ripeto - è il minimo sindacale il nuovo partito dovrebbe avere un programma talmente distinguibile da quello degli altri e talmente rilevante per un certo numero di elettori da incidere concretamente sulle dinamiche di voto. Fare per fermare il declino, per esempio, prometteva di avere queste caratteristiche e forza dirompente (ma altri difetti).

Da questo esercizio e da questo calcolo complesso – che non è la semplice somma di sigle e elettorati – si deve partire. Azione e +Europa dovrebbero misurare le differenze sui singoli temi di governo, ma soprattutto capire se concordano su di una strategia in grado di rendere un nuovo soggetto più competitivo, sapendo che anche in politica l’offerta crea la domanda. Il credito che Bonino, Calenda e molti dirigenti dei due partiti riscuotono nella generalità della popolazione per la loro serietà e preparazione non è una skill politico-elettorale. Il posizionamento all’opposizione del governo giallo-rosso su posizioni liberali e democratiche, anziché illiberali sovraniste, non rappresenta in questa fase una rendita ma una sfida.

Quindi, ammesso che si voglia perseguire la strada della fusione bisogna partire da una cosa: un progetto politico nuovo, un programma coerente con il progetto e una chiara identificazione dell'elettorato di riferimento che deve avere una sua consistenza. Leader, posizioni, strutture, statuti vengono dopo e sono comunque importanti perché a chiunque abbia dedicato mesi se non anni, risorse, capelli bianchi e nottate in bianco per creare una forza politica in cui ha creduto non si può semplicemente chiedere di fare un salto nel buio, chiunque egli o ella sia. Prima di un nuovo partito, che è pur sempre un mezzo, serve un nuovo progetto per rendere non solo “stimate” ma elettoralmente competitive le idee e le personalità dell’area politica liberal-democratica.

@MarcoMarazziMi