Di Maio grande

Terminato nel giro di qualche giorno il conflitto intra-grillino tra Conte e Di Maio, due professionisti del trasformismo ormai navigati, è inevitabile pensare a quanto “strutturate” e sofferte fossero le metamorfosi e le scissioni dei grandi partiti prima della liquefazione – ma forse sarebbe il caso di parlare di rarefazione – dello spettro politico-partitico.

Giusto per non partire dalla preistoria, e cioè dalla turbolentissima scissione di Livorno consumatasi esattamente un secolo fa, per avere contezza di quanto le cose si siano appunto rarefatte è sufficiente andare indietro di appena trent’anni e vedere cosa fu la svolta della Bolognina. La “gestazione” durò più di un anno (dal Novembre dell‘89 al Febbraio del ’91), si dispiegò lungo ben tre congressi e si sviluppò nell’ambito di un dibattito nel quale pesantissimi furono tanto il “fattore dottrinale” (gli autori marxisti e gramsciani persero terreno a vantaggio di Bobbio, Rawls, Dahrendorf ecc. – la produzione pubblicistica fu alluvionale) quanto il fattore internazionale (il decennio si avviò col golpe polacco e la clamorosa presa di distanza di Berlinguer dal socialismo reale e si concluse col crollo del Muro).

Il 3 Febbraio del 1991 si giunse finalmente alla ridenominazione: il Pci divenne Pds e nel nuovo logo una quercia giganteggiava sull’emblema miniaturizzato di falce e martello. Ma il dramma di cui il formale mutamento nominale e grafico fu mero compimento si consumò perfino in interiore homine – comunismo fu più una forma di messianismo secolare che un’ideologia – sia dal lato di Achille Occhetto, il “traghettatore”, che da quello di Armando Cossutta, lo scissionista.

Quattro anni dopo, assai meno drammatica fu, sul fronte opposto, la svolta di Fiuggi: destinatari come e più degli avversari comunisti di una conventio ad excludendum, a differenza degli stessi i postfascisti missini nacquero nella sconfitta ed ebbero più di quarant’anni per metabolizzarla. Ciononostante, a Fiuggi non mancarono né un dibattito dottrinale minimo (sulla de-idealizzazione della stagione fascista, sull’antiamericanismo, sul capitalismo, sulla nozione di italianità ecc.) né una tensione drammatico-nostalgica tra i “finiani” di AN e gli scissionisti “rautiani”, il conflitto fra i quali, peraltro, si svolse nell’arco di due congressi.

Non del tutto “de-ritualizzata” fu, in tempi più recenti, neppure la scissione tra destra berlusconiana e destra postmissina, con il «che fai, mi cacci?» di, ancora una volta, Gianfranco Fini incisosi per sempre nella storia politico-istituzionale italiana (anche e soprattutto in virtù della contestuale sconsacrazione dello scranno di terza carica dello Stato di cui Fini si rese colpevole restandovi accomodato durante la fondazione del suo partito).

Forse l'anno spartiacque fu il 2013, quando Angelino Alfano tirò fuori il logo del "Nuovo Centrodestra" con la stessa disinvoltura con cui in estate i presidenti delle squadre di serie A presentano le maglie e il merchandising per la stagione che verrà – anche in quella circostanza, peraltro, venne sovrapoliticizzata una carica, quella di Ministro dell’Interno, che in virtù della sua “delicatezza” non era mai stata affidata a capipartito (ma fu solo una pallida avvisaglia, se si pensa alla stagione del Papeete…).

Tanto la scissione finiana quanto quella alfaniana, per quanto “a-ideologiche” (c’era, strumentalmente, l’intenzione di pensionare il padre-padrone della destra della Seconda Repubblica e nulla di più profondo), furono funzionali alla presentazione di una mozione di sfiducia ai danni del governo Berlusconi quater l’una e alla prosecuzione del governo Letta l’altra; se non c’era appunto alcuna questione di posizionamento ideologico, ce n’era una di posizionamento politico rispetto al governo in carica – c’era dunque quello che si potrebbe definire “il minimo sindacale”. Anche l’operazione Italia Viva, nel 2019, fu una mera faccenda di palazzo, ma si presentò come inevitabile sfogo della tensione latente fra renziani e piddini antirenziani in relazione all’approccio coi populisti (militanza antipopulista da un lato, infatuazione irresistibile per Giuseppe Conte dall’altro) e venne “formalizzata” a posteriori tramite l’operazione Draghi.

In questi giorni, invece, stiamo assistendo a qualcosa di inedito. Siamo di fronte una scissione non solo del tutto priva di un casus belli credibile – parliamoci chiaro: Di Maio è governista non perché abbia interiorizzato una qualche forma di “moderatismo costituzionale”, ma perché è al governo; Conte non “soffre” sul serio al cospetto del flusso di armi verso l'Ucraina e degli effetti collaterali delle sanzioni commerciali in quanto pacifista e sensibile alla capacità d’acquisto dei ceti meno abbienti, ma perché fra meno di un anno gli italiani saranno chiamati alle urne.

Siamo di fronte una scissione del tutto priva non solo di un casus belli credibile, si diceva, ma anche di un esito in termini di posizionamento che non sia… il nulla, perché “le parti scisse” stanno continuando a occupare più o meno convivialmente i banchi della maggioranza in una prospettiva di lungo termine. Il divorzio tra Conte e Di Maio non è stato motivato e solennizzato né da una mozione di sfiducia (sarebbe chiedere troppo) né comunque da una mozione “di rottura” (l’altro ieri i contiani hanno votato la risoluzione di maggioranza sull'Ucraina assieme ai dimaiani). Sul piano politico, assistiamo al fenomeno del “partito scisso” utilizzato come strumento usa-e-getta per il consolidamento di leadership personali, ma senza che ci si prenda il disturbo di dargli una direzione specifica e creare quantomeno una false flag che giustifichi la scissione stessa; sul piano per così dire “narrativo”, o se vogliamo pirandelliano, il finto e serioso ravvedimento antiqualunquista di Di Maio e la vuota prosopopea di Conte non possono non far ridere.

Tirando le somme, dunque, il M5s nacque da un comico e inesorabilmente sta morendo dentro una barzelletta – che farebbe ridere se non ci fossero un'inflazione da anni '70, la guerra a due passi da casa, la siccità ecc.; i pentastellati si presentarono come gli agenti di una nuova moralizzazione della politica, si stanno congedando come i campioni della gestione personalista e presentista del consenso.