Spese militari e difesa europea. Conte ha torto, ma Draghi non ha ragione
Istituzioni ed economia
Giuseppe Conte conferma di essere un orologio rotto. Non ci si può basare su quello che dice per prendere alcuna decisione, eppure due volte al giorno (nel caso di Giuseppe Conte molto, molto, molto meno) è precisissimo: per le ragioni sbagliate, ma questo non vuol dire che in quel momento l'ora esatta sia un'altra.
Sulle spese militari, esattamente come sulla costruzione del Next Generation EU ai tempi della prima fase pandemica, ci sono seri motivi per considerare che la scelta migliore non sia quella "euroatlantica" che conosciamo. Nessuno di quei motivi, mi pare, sia tra quelli indicati da Giuseppe Conte, e questo non può stupire. Ma quei motivi esistono, e un uomo di governo e un servitore dello Stato del calibro di Mario Draghi avrebbe il dovere di tenerli in considerazione.
Prima di tutto c'è il problema della composizione della spesa: di cosa parliamo, quando parliamo di "spese militari"? Parliamo degli stipendi del personale? Degli armamenti leggeri? Delle infrastrutture militari, come basi, porti e aeroporti? Della partecipazione alla costruzione di nuovi sistemi d'arma sovranazionali? Della partecipazione a missioni all'estero? Di una migliore intelligence militare? Della formazione superiore dei quadri militari, nelle scuole di guerra e nelle accademie? Senza un chiaro piano di investimenti, dotato ovviamente di una certa dose di flessibilità per adattarsi al mutare dello scenario, è del tutto velleitario parlare di un livello del 2 per cento del PIL, che vuol dire un'enorme spesa aggiuntiva. Prima si parla di che cosa è necessario, poi si verifica quanto è necessario spendere per ottenerlo: altrimenti si rimane legati a un parametro "stupido", che può essere utile o meno rispettare.
Poi c'è una questione di sostenibilità di quelle spese: nel quadro attuale, con il rapporto tra debito e PIL che è esploso al punto da non essere più nemmeno oggetto di misurazione nel dibattito pubblico, e nel quadro di un ritorno a regole di bilancio che (per quanto si spera più lasche rispetto al Fiscal Compact) costringeranno a scelte politicamente e socialmente dolorose. Non si sa al momento come il governo attuale, e soprattutto quello futuro, intenda trovare le risorse necessarie: e questo dovrebbe farci suonare un campanello d'allarme, perché sappiamo già come sono state trovate dalle classi politiche italiane nel passato e nel presente.
Infine, ed è il tema su cui Mario Draghi dovrebbe avere una chiara sensibilità, la questione dell'integrazione europea e atlantica. La via dell'aumento delle spese militari è una via che facilita l'integrazione euroatlantica? Se ne può dubitare, per varie ragioni.
La prima riguarda il fatto che si passa dalle scelte nazionali dei governi degli Stati membri, che avvengono sull'onda emotiva dell'invasione russa in Ucraina: si rimane quindi in un ambito intergovernativo, in cui il fenomeno del free riding è sempre in agguato: è accaduto, e accadrà di nuovo non appena il ricordo della crisi comincerà a diventare meno pressante, con le forze economiche e politiche nazionali che cercheranno di tornare al più presto alla situazione precedente.
La seconda ragione è relativa all'efficacia di queste vie nazionali: a meno di non tornare agli "otto milioni di baionette" evocati da Mussolini e sappiamo come finì l'esercito italiano nel secondo conflitto mondiale, bisogna rendersi conto che gli eserciti nazionali europei contengono duplicazioni e inefficienze che non sono tollerabili, se non si tollerano sprechi scellerati, e che sono sostanzialmente inutili se impiegati al di fuori dei compiti di assistenza alla popolazione civile (come in occasione di terremoti, alluvioni, nella gestione logistica della campagna vaccinale, e simili). Lo ha dimostrato tra l'altro l'incapacità di ottenere risultati nelle lotte contro il terrorismo, nel Sahel e in Medio Oriente.
La terza ragione riguarda il cosiddetto "decoupling" tra gli interessi strategici europei e quelli statunitensi, che sono in alcuni casi molto simili ma che non coincidono completamente. Anche perché la composizione della NATO e dell'Unione Europea non coincidono. La Turchia non fa parte dell'UE, e fa parte della NATO; Svezia e Finlandia, all'opposto, fanno parte dell'UE e non della NATO. La questione dell'autonomia strategica europea non può essere uno stop-and-go a ogni stormir di fronda: cosa succederebbe in caso di una crisi del genere con un presidente come Trump di nuovo al potere negli USA? E cosa faremmo se il contrasto tra Stati della NATO ma non UE ritornasse ad aumentare, come nel caso della Turchia e della Grecia (supportata dalla Francia) appena 2 anni fa?
La quarta e più importante ragione è che il momento in cui avviene questa scelta è particolarmente significativo: si avvia a conclusione la Conferenza sul Futuro dell'Europa, fortemente voluta dal Parlamento Europeo e dal Presidente francese Macron (che l'aveva invocata in una lettera multilingue a tutti i cittadini europei prima delle ultime elezioni), in cui rimane fortissima la spinta dei cittadini per una maggiore integrazione. Al momento non sappiamo ancora che cosa verrà fatto delle raccomandazioni dei cittadini, ma l'incremento delle forze armate nazionali è certamente una scelta concreta che va in senso opposto a quello richiesto.
Quasi 70 anni dopo l'avvio del patto sulla CED (27 maggio 1952), abbiamo invece la straordinaria possibilità di tornare a costruire un percorso seriamente federale e una riforma delle istituzioni europee che fino a prima della pandemia sembrava lontano decenni.
Legare la quota di aumento delle spese militari di ciascuno Stato membro alla firma di un nuovo impegno per una politica estera europea, e per la costruzione di un esercito europeo che risponda a un governo europeo, che abbia la fiducia di un Parlamento europeo formato da due Camere, sarebbe una scelta che cambierebbe la storia d'Europa e forse del mondo.
Aumentare il numero di mitragliatrici, di aerei e di missili a disposizione dei soldati italiani, tedeschi o spagnoli, ma anche lussemburghesi, bulgari ed estoni (inquadrati o meno nella NATO) e farlo passare come una grande svolta per la sicurezza nazionale, europea e occidentale non sarebbe necessario per la pace, né utile per migliorare la capacità di intervento europea, né quindi serio da proporre.
Siamo finiti nella situazione di irrilevanza della UE in cui siamo perché abbiamo permesso che gli Stati nazionali tornassero ad avere un ruolo determinante nelle scelte europee: rafforzarli ulteriormente, armandoli senza criteri intelligenti, sarebbe una scelta esiziale. E a Mario Draghi e a Sergio Mattarella possiamo e dobbiamo chiedere di rispondere agli sbagli di Giuseppe Conte con gli argomenti giusti e le scelte giuste.