elezioni comunali urna grande

La presentazione delle liste elettorali per le elezioni amministrative ha dato il via a uno spettacolo grottesco, che si ripete ogni volta uguale a se stesso, assumendo nelle dimensioni – a partire dal numero di liste e candidati – una forma sempre più farsesca, con una marea di obblighi, disciplinati da norme minuziose, di cui è praticamente impossibile verificare l’osservanza e assolutamente normale derogare le (apparentemente tassative) disposizioni.

Anzi, per certi versi è proprio la legge – anzi la pluralità di leggi che intervengono su queste materie – a incentivare la ricerca a trovare l’inganno per uscire indenni ed avere il simbolo stampato sulla scheda elettorale e possibilmente un po' di seggi nei consigli comunali. Vediamo quali. Innanzitutto le firme da raccogliere.

Serve chi firmi e chi autentichi la firma. I partiti principali ed i relativi candidati sindaci non hanno problemi, lo fanno con la mobilitazione politica dei militanti. I partiti non di “massa” (ammesso che ne esistano ancora…) o le liste inventate per l’occasione (raggruppabili nella categoria: "Viva il nostro candidato sindaco!") faticano parecchio.

È noto l’eterno tam tam dei radicali e delle liste di quella galassia in molte delle passate elezioni, con un risultato raggiunto sul filo di lana con una drammatizzazione parossistica, ma nel rispetto assoluto della legalità. E gli altri? Gli altri non protestano, non denunciano difficoltà burocratiche, non lamentano il fatto che gli autenticatori previsti dalla legge (in primo luogo i consiglieri comunali, i sindaci e gli assessori) non siano disponibili ad aiutare forze nuove, non presenti nelle istituzioni locali e avverse al potere pro tempore. Eppure ce la fanno tutti a raccogliere le firme. Come?

In primo luogo, le firme vengono regalate da una forza amica della stessa coalizione. Questo vuol dire che un gruppetto di militanti gialli in sovrannumero rispetto alle firme occorrenti al partito giallo viene dirottato al partito alleato blu in difficoltà. Con questo meccanismo si moltiplicano le liste di ciascuna coalizione e a volte si presenta anche un simbolo confondibile con quello di una coalizione avversa.
Oppure le firme sono sportivamente apposte sui moduli elettorali dopo averle pescate alla rinfusa da qualche data base aziendale o di altro tipo, che rechi anche l’indicazione del documento di riconoscimento. Il titolare della banca dati non lo sa, il firmatario “fantasma” neppure, tanto chi se ne accorge?

Gli uffici elettorali devono verificare la documentazione in pochissime ore; nel caso di Roma, ricevono gli incartamenti di 39 liste e le certificazioni di decine di migliaia di firmatari. Che dovrebbero fare? È letteralmente impossibile per chiunque verificare doppioni (se non macroscopici) e la sincera volontà del sottoscrittore. Anche perché quelle firme sono autenticate e fa fede l’autenticazione, anche se l’autenticatore (in genere un consigliere comunale) ha sportivamente autenticato ex post firme di persone che non ha mai visto in faccia. Una pratica comune, non malevolmente ipotizzata, ma puntualmente verificata anche nei partiti maggiori spesso inciampati in beghe giudiziarie per questa abitudine diffusa ad autenticare firme farlocche.

In tutto questo ritengo che 22 aspiranti sindaci, come oggi a Roma, siano privi di qualsiasi senso e che potrebbe esserci un inasprimento del meccanismo di accesso e una limitazione numerica del numero di addendi massimi delle “compagini elettorali”. Non è con una messe di candidati e di liste fantoccio che si fa vivere la democrazia, il pluralismo e la partecipazione politica.

Poi ci sono le norme sulla rendicontazione. Teoricamente ogni candidato (sono circa 1800, solo per il Consiglio comunale e altre svariate migliaia per le municipalità della Capitale) dovrebbe avere un mandatario elettorale, aprire un conto corrente dedicato dove far transitare contributi e pagamenti, presentare entro 60 giorni la rendicontazione con documentazione allegata. Avviene così? Ovviamente no. I candidati eleggibili, o con ragionevole aspettativa di elezione, quantomeno rispettano le forme, largheggiando abbondantemente con lo sport nazionale del non tracciato. Insomma, molto in contanti e tutti felici. D’altronde se faccio un aperitivo al bar di un amico chi verrà mai a verificare se ho raccolto dei contributi, magari modesti e sinceri, e come li avrò impiegati? Insomma moltissimi adottano la procedura – chiamiamola così – semplificata, ovvero l’autocertificazione di non avere raccolto e speso nulla e tutto finisce lì.

I big invece? Beh, stanno più attenti, ma poi la casella della rendicontazione dove dovrebbero essere registrati i contributi dei servizi resi da terzi (il barista che mi lascia a disposizione il bar e offre da bere, per stare all’esempio) resta quasi sempre vuota. E se quindi l’aperitivo viene offerto da Pippo non viene registrata. Tanto chi può sapere che Pippo ha offerto un aperitivo?

Ovviamente non tutti fanno così e molti registrano tutto. Ma come noto se registri tutto poi devi rispettare i limiti di spesa, e non va sempre così. Tutto questo per dire che i candidati sono tutti imbroglioni? Assolutamente il contrario. Per dire che abolito il finanziamento pubblico deve essere l’orgoglio del candidato poter raccogliere soldi e spenderli liberamente. Niente timori cattocomunisti dello sterco del diavolo. Candidati: raccogliete e spendete liberamente. Ma non si può. C’è un tetto da rispettare e ogni spesa va documentata in un modo così complicato che la sua irregolarità formale finisce per diventare più pericolosa di una clandestinità sostanziale.

Da tutto questo che cosa consegue? In termini empirici, che le normative di “garanzia” sono fatte apposta per essere eluse e che sarebbe sensato pensare alternative empiriche più efficienti.

In primo luogo, sarebbe più sensato prevedere una cauzione, che impedisca alle liste civetta, di disturbo o di allargamento puramente aritmetico di una coalizione di presentarsi senza pagare pegno. Le firme per presentare la lista “Viva Tizio” si trovano, più difficile trovare (in anticipo) i soldi per pagare la cauzione, che va persa se la lista “Viva Tizio” non supera un minimo risultato elettorale: un indice di rappresentatività superiore a quello delle firme (fatte come abbiamo detto).

In secondo luogo, sarebbe opportuno che ogni compagine politica che si presenta al voto non avesse la possibilità di presentare un numero indeterminato di liste e di candidati per dragare il consenso impolitico sulla base di legami familiari, professionali, amicali…e comunque impolitici. Che senso ha avere cinque, sei, sette liste (ovviamente non rappresentative di partiti nazionali) collegate a un candidato sindaco e presentare centinaia e centinaia di candidati per avere al massimo due decine di consiglieri comunali?

In terzo luogo sarebbe ragionevole immaginare una rendicontazione meno burocratica e eludibile delle spese elettorali. Ma questo implicherebbe – ed è un discorso lungo – il superamento del voto di preferenza anche nei consigli comunali e regionali, che è il fattore principale di innesco non solo del voto di scambio, ma anche del “non tracciamento” di molte spese dei candidati. Ma il paradosso è che il voto di preferenza è diventato (dopo essere stato il vero e proprio cancro della Prima Repubblica e uno dei fattori di crescita incontrollata della spesa pubblica nazionale e locale) uno dei totem del populismo antipolitico e quindi non si tocca.