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La Superlega pensata dalla “sporca dozzina” di manager e presidenti era un progetto nato morto, non ci voleva molto a capirlo e fa sorridere – per non dire sghignazzare – che alcuni l’abbiano definita “il futuro”, qualcosa che “cambierà per sempre il calcio”, “un progetto da cui non si torna indietro”. Andrea Agnelli, l’ultimo ad arrendersi perché nel fallimento di questa vicenda sapeva che avrebbe perso completamente ogni credibilità, parlava addirittura di un “patto di sangue” tra i 12 club poco prima della riunione serale che avrebbe chiuso il discorso: e invece non si era mai visto un progetto così faraonico cadere a meno di 48 ore dalla sua nascita, segno evidente di quanta improvvisazione ci fosse dietro.

In realtà l’idea di un campionato europeo tra le migliori squadre del continente è talmente una buona idea che è nato prima dell’Europa (o quantomeno prima della CEE): l’idea, riprendendo quella della leggendaria Mitropa Cup degli anni ‘20 e ‘30, venne infatti al giornale francese L’Equipe nel novembre del 1954, e all’inizio fu osteggiata sia dall’UEFA che dalle Federazioni, che avevano capito subito il problema di avere una competizione così prestigiosa in grado di oscurare i campionati nazionali. Fu la FIFA a dare il proprio appoggio al progetto di una Coppa dei Campioni, che in breve diventò il successo sportivo e commerciale che oggi conosciamo con il nome di Champions League. Ma se è un’idea così buona, perché ha generato questo vespaio di polemiche e contrasti?

Ci sono degli elementi politici di questa vicenda che vanno presi sul serio. Non mi riferisco al fatto che molti parlamentari e perfino alcuni capi di governo abbiano perso tempo prezioso per dare il proprio parere (negativo, visto l’atteggiamento dei tifosi) sulla vicenda; e non mi riferisco nemmeno all’idea che dietro questa difesa dei campionati nazionali ci siano sovranismi, mentalità chiuse, difese dell’identità. Siamo invece sempre lì, all’incompetenza e all’irresponsabilità delle classi dirigenti (in ambito calcistico, in questo caso) e alla difficoltà di definire cosa sia “il meglio”: non basta parlare di meritocrazia, per essere meritocratici, e il presunto “sangue blu” di queste 12 è in diversi casi colorato con qualche sostanza chimica.

Tanto per capirci: il Liverpool, vincitore per la diciannovesima volta della Premier League lo scorso anno, aveva vinto lo scudetto precedente nel 1989-90, quando le squadre inglesi erano ancora escluse dalle competizioni internazionali per i fatti dell’Heysel di 5 anni prima. A quell’epoca il Manchester United aveva vinto appena un terzo dei campionati che ha oggi (7 contro 20) e i cugini del Manchester City, dominatori dello scorso decennio a partire dalla vittoria 2011-12, avevano terminato in vetta l’ultima volta nel maggio francese (stagione 1967-68); l'unica altra vittoria dei Citizens risaliva al 1° maggio 1937, cinque giorni prima che il dirigibile Hindenburg prendesse fuoco in New Jersey e 3 giorni dopo l’inaugurazione di Cinecittà. In Francia il Paris Saint-Germain, quasi incontrastato padrone del campionato con sette vittorie negli ultimi dieci anni e invitato a partecipare alla Superlega, aveva vinto appena due titoli tra gli anni '80 e ‘90: è ancora il Saint-Étienne la squadra più titolata dell’Esagono, nonostante l’ultimo loro scudetto (il decimo) risalga addirittura a 40 anni fa (1980-1981). E complessivamente la Francia ha vinto solo una volta la Coppa con l’Olympique Marsiglia del discusso Bernard Tapie nel 1993.

Il fatto è che i grandissimi club di questi anni sono spesso dei parvenus, che a un certo punto hanno visto in cassa soldi a palate e li hanno spesi largheggiando senza tenere conto delle voragini che stavano aprendo; oppure sono dei nobili spiantati come l’Arsenal, che ha vinto il proprio ultimo scudetto quasi 20 anni fa (2003-04), riuscendo però spesso a ottenere diverse FA Cup. Mai glorioso in Europa però, dove l’unica vittoria in Coppa delle Coppe risale al 1993-94 e l’unica in Coppa delle Fiere – ancora nemmeno Coppa UEFA – al 1969-70. E quindi, se parliamo di merito storico, sarebbero ben più titolati un Ajax (4 volte vincitore della massima competizione) o un Benfica (2 volte vincitore ma altre 5 volte finalista), rispetto a un Chelsea che ha solo una Champions in bacheca, vinta nel 2012: forse sarebbe stato più trasparente parlare della volontà di avere club in grado di raccogliere un bacino di utenza particolarmente ampio, in mercati ricchi ed esigenti, e in grado di metterli a frutto; invece si è preferita una bugia così visibile che era impossibile ignorarla senza passare per stupidi.

Tutto questo ci dice dunque molto del concetto di “meritocrazia” che avevano in testa i patrocinatori di questa colossale pagliacciata. Non uso la parola a caso: siamo ben oltre il ridicolo quando il principale regista dell’operazione, sempre l’ineffabile Andrea Agnelli, risponde “non credo che quel progetto sia ancora in corso” a una domanda della Reuters sul futuro della Superlega (parlando quindi come fosse uno che passava per caso, riportando delle voci di corridoio).

Ci resta però da parlare dell’aspetto politico di questa vicenda. Quello che abbiamo descritto è in un certo senso il Gotha societario dell’attuale calcio europeo: cioè di un business che interessa oltre 3 miliardi di utenti e consumatori sui 5 continenti, già oggi l’unico mercato sportivo davvero globale e potenzialmente in grado di diventare uno dei primi settori industriali in cui l’Europa può tornare in testa. Questo è quindi il livello degli amministratori delle società al top: gente incapace di immaginare che andava a toccare interessi ultra-consolidati, e senza preoccuparsi minimamente di dare una forma completamente aperta alla competizione, senza l’interesse per l’opinione dei primi che avrebbero dovuto contribuire al business (manager come Maldini, allenatori come Guardiola e Klopp, e campioni del mondo ancora in attività come Özil e Podolski), senza uno straccio di analisi di mercato sulle reazioni che avrebbe avuto un progetto del genere tra i primi utenti del prodotto (cioè i tifosi delle squadre fondatrici); e, per finire, spesso nemmeno in grado di rimanere con i libri contabili in ordine. Se questo è il massimo della capacità capitalistica e finanziaria che il calcio europeo è in grado di esprimere, probabilmente bisognerebbe rivalutare con occhio più benevolo sia i risultati ottenuti dall’economia pianificata che alcuni presidenti, pittoreschi e cialtroni ma se non altro consapevoli della propria pochezza.

C’è di più: messa in termini elettorali, la Superlega ricorda abbastanza da vicino l’esperienza di alcuni partiti minori italiani, nati per rivoluzionare il mondo della politica e ancora fermi al punto di partenza, sempre in attesa del momento buono per mettersi insieme e spartirsi la favolosa torta del consenso moderato. Che intanto resta lì, attonito e incapace di credere che la propria speranza di un’offerta politica minimamente adeguata sia affidata a personaggi squallidamente avidi, mediocremente improvvisati, egoisticamente miopi, e allo stesso tempo così tronfi dei propri successi presenti o passati da ritenerli segni di un favore eterno, che non conoscerà fine e che invece è quasi sempre solo un ricordo o un sogno.

Quanto ci sarebbe bisogno invece di un vero campionato di calcio sovranazionale per club in Europa? Ce lo dimostrerà il primo Campionato europeo tra nazionali giocato su scala continentale, che partirà proprio a Roma l’11 giugno. Sarà – c’è da sperarlo – una vera festa: e speriamo che l’UEFA e le Federazioni capiscano che questa formula è l’unica in grado di dividere i costi dell’organizzazione, distribuire gli utili, accontentare i tifosi di varie parti d’Europa e unire gli animi. Farne un unicum e tornare alle vecchie abitudini sarebbe una colossale stupidaggine, peggiore di quella della Superlega. Che resta una straordinaria idea, presa in prestito e messa KO da pessimi soggetti: non lasciamo che il loro fallimento ci privi di un vero campionato continentale, spettacolare perché aperto e contendibile. E, soprattutto, davvero europeo.