classe dirigente grande

Se la crisi da film catastrofico che stiamo vivendo in questo periodo ci può aiutare in qualcosa, almeno in Italia riguarda una criticità che doveva “emergere” da tempo e che solo “l’emergenza” in atto invece sta rendendo sempre più visibile in controluce. C’è qualcosa di profondo che lega insieme i tasselli del puzzle civile di queste settimane, e che ne rende più chiare quasi tutte le manifestazioni cui ci tocca assistere sui media o dal balcone delle nostre case, spesso come spettatori impotenti.

Tra tutti i commenti scritti, pochissimi riguardavano la questione “metodologica”, che riguarda cioè il modo a volte sgangherato e a volte eroico con cui stiamo andando avanti. E quei pochissimi riguardavano sempre la politica, i suoi attori, le sue contraddizioni: ma bisogna riconoscere che la sindrome Covid19, con i suoi addentellati epidemici, sociali ed economici, è solo una scintilla caduta per caso su un gigantesco mucchio di paglia secca in una giornata di vento.

Non è la causa del disastro, solo la sua manifestazione concreta attraverso un evento inatteso; la causa avrebbe potuto essere un’altra, e abbiamo avuto tutto il tempo e diverse occasioni per renderci conto della situazione in cui eravamo. Anche se da molti anni non abbiamo vissuto un attentato terroristico, né lo scoppio di una guerra, abbiamo avuto terremoti, crolli di ponti e incidenti ferroviari tra gli eventi maggiori; tracce sbagliate alla maturità, libri di testo con errori marchiani, sperimentazioni farmacologiche lanciate per soddisfare il pubblico televisivo tra gli eventi meno appariscenti.

Cosa ci dicono, presi tutti insieme, gli ultimi trent’anni di storia della società italiana? Che il danno profondo inferto al nostro Paese viene da molto lontano, e si manifesta oggi nei “fenomeni morbosi più svariati” (per citare una nota gramsciana di 90 anni fa): lo si vede in un’opinione pubblica schizofrenica, che pretende soluzioni immediate e miracolose dagli stessi politici che disprezza; lo si vede in un Parlamento così privo di autorevolezza da arrendersi alla sua marginalizzazione, con un atteggiamento tanto autoassolutorio che farebbe venire voglia anche al sottoscritto di ridurne le dimensioni; lo si vede infine, ed è l’indicatore più importante, in una classe dirigente pubblica e privata (a tutti i livelli e in molti settori) che o è complessivamente impreparata o non riesce a sbloccarsi se non nelle peggiori emergenze.

Quello che manca in Italia è infatti una capacità sistemica e sistematica di selezione del merito, che sia adeguata alle condizioni incerte in cui ci muoviamo, e quindi che abbia anche dei criteri flessibili: abbiamo talenti immensi, livelli di genialità e ingegnosità forse senza pari, competenze di livello mondiale anche in ruoli di primaria importanza, ma non riusciamo a farne “la regola”. Li consideriamo eccezionali, proprio nel senso di “eccezioni”, e in questo modo ci assolviamo dalla responsabilità collettiva di capire come quelle eccezioni possano divenire più frequenti, più visibili; di capire come far loro assumere un ruolo più centrale nelle istituzioni che occupano o (dove già le dirigono) come fare in modo che quelle istituzioni diventino un incentivo per le altre, un modello a cui tendere. Ci limitiamo a soffocare tutto e tutti, incluse le “eccezioni”, in una cappa di regole sempre più stringente, sempre più pervasiva, sempre più benintenzionata: ma sempre più impossibile da rispettare, sempre più priva di senso complessivo. Basterebbe citare la vicenda di Ilaria Capua, quella del Codice degli Appalti o la girandola di autocertificazioni per avere chiaro il quadro.

E perché questo avviene? Perché ci siamo disinteressati (collettivamente e da tempo) di una cosa che l’era dell’informazione ha reso cruciale per la sopravvivenza stessa di qualsiasi organizzazione umana: la selezione della classe dirigente. Ci siamo accontentati di chi riusciva in qualche modo a salire la scala nel sistema che avevamo costruito (e a volte che ci siamo trovati ad avere, senza nemmeno pianificarlo): si trattasse di leader politici, di dirigenti aziendali, di imprenditori, di professori universitari o intellettuali, il loro essere “classe dirigente” è stato dato per scontato. Al massimo si poteva contestare la loro personale adeguatezza, a seconda delle proprie preferenze politiche o dei propri convincimenti e dei propri studi: ma sul sistema che li aveva selezionati e fatti emergere non sono mai state avanzate troppe osservazioni (al di là delle patologie più evidenti, come i concorsi truccati o le primarie senza concorrenti).

Non è solo una questione di meritocrazia, attenzione: il merito è spesso quanto di meno oggettivo si possa valutare. Non c’è uno strumento né una scala che faccia da “meritometro”: e il tentativo di trovarne dei surrogati (come il famigerato parametro delle pubblicazioni scientifiche per i concorsi universitari) è un rimedio peggiore del problema stesso, perché diventa presto formalismo inutile o controproducente.

È invece soprattutto una questione di responsabilità, che in italiano è un termine ambiguo. Quando in ambito aziendale parlo con persone con la qualifica di “responsabile”, la mia mente corre sempre alle preposizioni da affiancare a questa parola: responsabile “di” o responsabile “verso”? Generalmente si pensa a un responsabile come una persona che sovrintende qualcosa o qualcuno (il responsabile “di” un reparto); ma la responsabilità è anche una responsabilità “verso” quel qualcosa o quel qualcuno, e questo se lo ricordano in pochi. Una classe dirigente è veramente tale se è responsabile. E la responsabilità che ho in mente è traducibile con il termine inglese di accountability, cioè una responsabilità di cui si deve rispondere (non è un caso che l’etimologia sia proprio quella) a qualcuno: si può essere costantemente giudicati in relazione ai propri risultati e all’uso che si è fatto della responsabilità “di”, da chi ne subisce le decisioni e gli effetti più che dai propri superiori (responsabilità “verso”).

Il dramma al rallentatore in cui da molto tempo viviamo immersi, nel declino di una nazione che era stata capace di risorgere dalla distruzione che l’aveva colpita, è la nostra incapacità di scegliere delle persone a dirigerci come collettività, e di accettare la responsabilità verso noi stessi di quella scelta, di quei metodi di selezione, della preparazione (o dell’impreparazione) di quelle persone. Finché continueremo a invocare un “salvatore eccezionale” a ogni crisi, non importa selezionato come (si chiami Mario Monti o Mario Draghi, Xi Jinping o Vladimir Putin, Unione Europea o USA) sarà dura uscire da questa situazione: e ci vorrà molto più tempo e molta più determinazione di quanto impiegheremo per trovare un vaccino al SARS-Cov-2.

Perché due sono gli scenari possibili: il primo è che passiamo l'emergenza e ne usciamo vivi, seppure ammaccati; il secondo è che attraversandola il Paese ne esca ferito a morte. In quest’ultimo caso i problemi saranno ben altri e questo articolo sarà stato del tutto vano nell’indicare una strada. Ma speriamo di trovarci davanti al primo: la crisi deve essere l'occasione per impostare un cambiamento radicale, che non può avvenire in poche settimane o in pochi mesi e non può limitarsi al “riapriamo tutto, un po’ alla volta”. Stiamo come stiamo perché siamo andati avanti di emergenza in emergenza, senza mai immaginare un “dopo” diverso; se neanche in questo cataclisma capiamo perché ci troviamo peggio di altri allora è inutile ripartire: quello che stiamo passando non ci insegnerà niente sui punti da affrontare per crescere seriamente, con una prospettiva di lungo termine, e presto saremo di nuovo alle prese con gli stessi problemi che da trent’anni ci impediscono di tenere il passo degli altri.