disuguaglianze grande

“In Italia come nel resto dell’Occidente, l’aumento delle disuguaglianze non è l’effetto inevitabile di cambiamenti fuori del nostro controllo. Le scelte politiche, culturali ed economiche che hanno accompagnato queste tendenze sono andate nella direzione di accrescere le disuguaglianze. Ci riferiamo all’inversione a U delle politiche pubbliche, alla riduzione del potere negoziale del lavoro e al cambiamento del 'senso comune'.” Questa, l’introduzione al “piano Atkinson” per l’Italia promosso dal Forum Disuguaglianze e Diversità guidato dall’economista Fabrizio Barca, secondo cui “Esistono quindi le condizioni per invertire questo stato di cose.” (Forum Disuaglianze e Diversità, 2021, online https://www.forumdisuguaglianzediversirg/ricerche-e-azioni/un-programma-atkinson-per-italia/ ) .

Tali condizioni si ispirano alla monografia Equality, What Can Be Done? (2015) di, appunto, Anthony Atkinson. Primario riferimento di Thomas Piketty, al termine della sua produzione scientifica Atkinson ha insistito con particolare fervore sulla necessità, per operare quella “inversione a U” evocata dal Forum, di procedere alla redistribuzione della ricchezza privata attraverso una massiccia tassazione progressiva di beni e reddito individuali: in particolare di quelli di cui si è beneficiari non per meriti, appunto, individuali, ma in virtú di un esito fortunato di quella “lotteria della vita” che posiziona alcuni in posizione di vantaggio, ed altri di svantaggio economico. La tassazione del reddito individuale fino al 65%, la creazione di una “eredità universale” ed altre misure redistributive della ricchezza privata concorrono all’articolazione della proposta avanzata da Atkinson e raccolta nel suddetto volume. L’obiettivo dell’omonimo programma del Forum è quindi quello di “proporre al pubblico dibattito un insieme di politiche pubbliche e azioni collettive per accrescere la giustizia sociale e in particolare riequilibrare la distribuzione della ricchezza privata e l’accesso alla ricchezza comune”.

L’equazione concettuale che sta alla base del programma è quella tra disuaglianze economiche ed ingiustizia sociale: ossia tra concentrazione della ricchezza, ed una valutazione morale sull’assetto delle nostre società. Equazione che l’economista liberale Edwin Buitelaar definisce il grande “balzo normativo” del discorso contemporaneo su disuguaglianze e giustizia, ma che resta pressoché dogmatica tra gli intellettuali progressisti: in particolare tra quanti adottano una prospettiva egalitaria sulla giustizia sociale basata su una concezione della disuguaglianza economica come intrinsecamente ingiusta. Atkinson era tra questi.

Considerato “il padrino” della letteratura economica sulle disuguaglianze, autore prolifico e mentor di decine di studiosi, gli ultimi scritti di Atkinson non apportano nulla di nuovo al fronte progressista: né sul piano concettuale, né dell’indirizzo di policy, da sempre imperniato sul tema della redistribuzione della ricchezza privata come panacea dei principali mali sociali. Non è quindi l’originalità, ma al contrario la mancanza di attualità delle sue posizioni a suscitare perplessità circa la loro elevazione a riferimento teorico da parte di economisti impegnati sul fronte delle disuguaglianze nel contesto italiano: le cui specificità, per arrivare al tema di questa riflessione, richiederebbero una prospettiva multidimensionale capace di includere, concettualmente ed analiticamente, fattori storici e geografici, culturali e politici ben piú complessi degli indicatori monetari su cui è concentrata l’analisi dello studioso britannico.

Della grande limitatezza di tale analisi parla, tra altri, Pasquale de Mauro in un ottimo saggio dal bellissimo titolo: Not just slicing the pie (De Mauro, 2016). In esso, a partire dalle posizioni di Amartya Sen e della relativa teoria delle capacità, De Mauro articola quattro ragioni per cui, in merito alle disugualianze economiche, limitare i foci descrittivo (“quanta disuguaglianza c’è”), analitico (“perché c’è”) ed infine normativo (“che fare”) agli indicatori di reddito e capitale individuali inverte il rapporto di causa ed effetto tra disparità di opportunità, e disparità di mezzi: confinando il discorso sulle disuguaglianze ad un discorso numerico da liquidarsi con quella che la storica dell’economia Deirdre McCloskey chiama “the simplified ethics of dividing the pizza”. De Mauro cita tra altri esempi quello della scarsa partecipazione delle donne nel mondo del lavoro italiano: come noto, molto bassa a confronto sia di quella maschile, che di altre economie sviluppate. Assumendo che tale mancanza di accesso al lavoro non sia volontaria, ma principalmente subíta, De Mauro argomenta come sia la mancanza di tale opportunità, a determinare una disuguaglianza di reddito tra individui di genere diverso: nonché di piú limitato sviluppo della persona per quelli di genere femminile. Sviluppo con implicazioni chiaramente economiche, ma non “catturabili” interamente dalla dimensione monetaria di reddito a capitale. Né soprattutto compensabili attraverso un’operazione di redistribuzione del reddito senza che questa si accompagni ad una valutazione multidimensionale delle cause e degli effetti della grande disparità di opportunità osservabili tra generi, regioni, e percorsi storici diversi all’interno del nostro Paese.

Tra le altre ragioni citate da De Mauro per superare l’equivalenza concettuale tra disuguaglianza ed ingiustiza sulla base di meri indicatori monetari compare quella piú squisitamente “seniana” di espandere la concezione del benessere umano da quanto ognuno possiede, a cosa ognuno può fare attraverso il complesso delle condizioni offertegli dal suo contesto di vita. È del tutto scontato, ad esempio, che a parità di reddito il contesto spaziale, ambientale e sociale incida enormemente sulle possibilità degli individui di realizzare gli obiettivi a cui danno valore. Come è del tutto scontato che a parità di reddito le capacità individuali di condurre una vita allineata con i propri bisogni ed aspirazioni passino attraverso caratteristiche fisiche, intellettive e valoriali del tutto particolari.

Queste forme di diversità, contingenze e particolarità non diminuiscono la rilevanza degli indicatori di reddito e capitale per mappare le risorse a disposizione delle persone nelle nostre società: limitano però nettamente la possibilità di sostenere l’esistenza di un’equazione concettuale, e morale, tra disuguaglianza economica ed ingiustizia sociale. Equazione che a furia di essere validata da larga parte del mondo intellettuale è diventata del tutto dominante nel discorso pubblico, e rispetto alla quale sembra essere oramai sospeso qualunque atteggiamento genuinamente indagatore.

Osservazione, questa, che conduce all’ultima ragione per cui le posizioni del grande studioso che è stato Sir Anthony Atkinson mal si prestano, secondo chi scrive, ad essere trasposte al caso italiano: ossia il rischio di renderle strumentali all’ulteriore validazione di quel fondamentale disprezzo per la ricchezza e fortune altrui di cui è impregnato il sentire comune ad entrambi gli estremi dello spettro politico. Cementando cosí l’eterno connubio tra un sentimento popolare sterile di progresso, ed una retorica politica perennemente gravida di cambiamento: gravidanza, a ben guardare, isterica. Perché non è null’altro che l’eterna gestazione dello spirito intimamente conservatore che impregna la cultura nazionale. Spirito che nella storia dell’ultimo secolo si è camuffato da tesi, travestito da antitesi, senza mai partorire alcuna sintesi.

Secolo durante il quale, proprio per questo, non è mai stato banale ripetere che è la produzione della ricchezza, nella connotazione piú neutrale del termine nota ad economisti e politologi, a costituire la premessa necessaria per garantire l’estensione a tutti di quei mezzi ed opportunità primarie la cui non-esclusività è alla base delle società liberali: che, altro appunto mai scontato, sono le società piú egalitarie sinora partorite dalla Storia. Storia raccontata magistralmente da Deirde McCloskey nella monografia Bourgeois Equality (2015), in cui la studiosa ripercorre gli eventi che hanno portato, a partire dal secolo XIX, a quell’esplosione di progresso espansosi dal Nord Europa in tutto il mondo cosiddetto libero. La lettura che ne dà McCloskey, come noto opposta a quella di Piketty e della rispettiva scuola di pensiero, è che “the great enrichment” sia stato reso possibile non dall’accumulo di capitale, ma della simultaneità e diffusione di due, banali e portentose, idee: la prima, che gli individui sono parimenti liberi. La seconda, che sono portatori di pari dignità. Idee incendiarie che hanno saputo destrutturare secolari rapporti di dipendenza tra i destini predeterminati del possidente, e del posseduto. Sostituendoli, si è detto, con quelli del borghese e del proletario; ma con una fondamentale differenza, quasi mai rappresentata nella narrazione dominante. Ossia l’avvenuto riconoscimento, nel sentire comune, del diritto anche di quest’ultimo di migliorare le proprie condizioni di vita attraverso l’iniziativa individuale sulla base di una concezione della dignità umana come condizione agita, non elargita.

Chiunque abbia percorso quel tratto di storia che nel battito di ciglia delle sole ultime tre generazioni ha emancipato famiglie e regioni e nazioni europee dalla povertà comprende, senza indugi, questa concezione di dignità: quella catturata magistralmente dal Premio Strega Edoardo Nesi nel ricordo della sua gente, “gente che sapeva solo lavorare”. I suoi genitori. I miei. Mia nonna, nata nel 1921, bracciante nei vasti feudi agricoli che contengono la laguna veneta, analfabeta. Analfabetismo, concedendomi un parallelo tra il particolare della mia storia ed il fenomeno che da essa riverbera, che è il reale estremo a partire dal quale misurare la distanza percorsa nei cento anni che separano la sua nascita, dal ticchettio delle dita che compongono questa riflessione sulla tastiera.

Certo, quella distanza può esser misurata in reddito e capitale. Talvolta è necessario, ed utile. Ma la si può misurare usando il metro delle capacità – ossia della libertà – che quei cento anni hanno avanzato per la mia generazione attraverso quell’etica realmente egalitaria del mondo che qualifica l’individuo per ciò che l’individuo può fare; non per ciò che l’individuo possiede. Pensieri, questi, molto poco originali. Esattamente come quelli di Tony Atkinson.