livono 1921 big

Il XVII Congresso nazionale del Psi si svolse a Livorno al Teatro Goldoni nelle giornate dal 15 al 21 gennaio 1921. All’Assise presero parte i delegati di 4.367 sezioni con 216.327 iscritti. "La sala del Congresso – scrisse l’Avanti! del 16 gennaio – ha un aspetto veramente imponente. La decorazione è propriamente decorosa ed elegante, con i suoi festoni che seguono l’ampia curva dei palchi, con le sue iscrizioni, con la sua ben combinata diffusione di luce. Ma ciò che dà imponenza e grandiosità è lo spettacolo del numero dei convenuti. Noi abbiamo assistito – proseguiva il giornale – a quasi tutti i Congressi socialisti e sappiamo bene non meravigliarci del concorso numerico delle rappresentanze socialiste. Ma questa volta – ribadiva l’Avanti! – lo spettacolo è veramente grandioso; si tratta di migliaia di intervenuti che rappresentano la più grande forza politica d’Italia".

Eppure si sapeva quale sarebbe stato l’esito: bastava leggere le mozioni delle cinque "tendenze" che si scontrarono nel dibattito e nelle votazioni finali: quella dei "concentrazionisti" formata dai riformisti (mozione di Reggio Emilia) che aveva come principali esponenti Turati e Modigliani; la frazione intransigente rivoluzionaria capeggiata da Lazzari; la frazione dei "comunisti unitari" di Giacinto Menotti Serrati, quella dei "comunisti puri" guidata da Bordiga e Terracini e quella dei "pontieri" tra le due frazioni comuniste di Marabini e Graziadei.

La questione cruciale riguardava la condivisione dei 21 punti che la III Internazionale comunista aveva imposto ai partiti che intendevano aderire. Tra questi requisiti pregiudiziali uno minava esplicitamente l’unità del Psi. Il punto 7 risuonava come una fatwa: "I partiti che desiderano appartenere all’Internazionale comunista sono obbligati a riconoscere la completa rottura col riformismo e con la politica del 'centro' e a propagare questa rottura nella più ampia cerchia comunista".

Il testo, poi, si prendeva la briga di chiamare per nome i social traditori. ‘’L’Internazionale comunista non può tollerare che opportunisti notori, quali Turati, Kautsky, Modigliani, ecc., abbiano il diritto di passare per membri della III Internazionale’’. I 21 punti erano stati votati al II Congresso della Internazionale comunista che si era svolto nell’estate precedente a Mosca. Vi aveva partecipato una delegazione del Psi composta da Serrati, Graziadei e Bombacci. Mentre gli ultimi due avevano condiviso in toto il diktat, Serrati pur dichiarandosi d’accordo in linea generale aveva respinto il punto relativo all’espulsione.

Il tema venne, quindi, sottoposto in Italia alla direzione del partito; la posizione di Serrati era passata con 7 voti contro 5. Ciò consentì al partito di presentarsi unito alle elezioni amministrative del 31 ottobre e del 7 novembre del 1920 nelle quali i socialisti vinsero in 2162 su 8mila Comuni (tra cui Milano e Bologna) e in 26 amministrazioni provinciali. In vista della convocazione del XVII Congresso chiamato a risolvere la questione dell’unità del partito, si erano riunite le frazioni: a Reggio Emilia i concentrazionisti/riformisti; a Imola i comunisti puri. I primi, pur senza mettere in discussione l’appartenenza alla III Internazionale, si erano pronunciati contro qualsiasi discriminazione nei loro confronti e la conquista legalitaria del potere.

I secondi avevano lanciato un manifesto a firma di Bombacci, Bordiga, Gramsci, Misiano e Terracini nel quale veniva espressa l’adesione incondizionata della frazione ai 21 punti. Serrati, invece, aveva sostenuto con la mozione (di Firenze) dei comunisti unitari la necessità dell’unità del partito in quanto ‘’ la situazione italiana era diversa da quella russa’’. Il dibattito iniziò e proseguì tra gli interventi dei maggiori esponenti, polemiche e interruzioni sul tema dell’unità o della scissione. Nel pomeriggio del giorno 20 si tennero le votazioni che diedero i seguenti risultati: votanti 172.487; mozione di Firenze (comunisti unitari) 98.028 voti; mozione di Imola (comunisti puri) 58.783 voti: mozione di Reggio Emilia (concentrazionisti/riformisti) 14.685 voti; astenuti 981. Dopo la proclamazione degli esiti, la mattina del 21 gennaio, la frazione comunista dichiarò che la maggioranza del Congresso si era posta fuori della III Internazionale e invitava i propri aderenti ad abbandonare la sala e a recarsi, alle ore 11, al Teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito comunista, sezione italiana della III Internazionale. I militanti uscirono al canto dell’Internazionale.

Fin qui i fatti. Gli storici forniscono anche altre motivazioni della scissione. I comunisti – se consideravano degli avversari irrecuperabili i riformisti – erano critici anche nei confronti dei c.d. massimalisti. Li consideravano dei velleitari che parlavano di rivoluzione proletaria senza fare nulla per organizzarla, come se un bel giorno da uno sciopero generale potesse scaturire la presa del potere. Al gruppo dirigente del Psi si rimproverava di aver perso l’occasione dell’occupazione delle fabbriche che era sfociata – per responsabilità dei riformisti della Cgl e della Fiom – in un accordo sindacale – certamente vantaggioso poi approvato dai lavoratori in un referendum – imposto da Giovanni Giolitti agli industriali (che non glielo perdonarono mai).

Ovviamente, solo i visionari potevano ritenere che quell’iniziativa di lotta (nata in seguito ad una vertenza sindacale sfuggita di mano), che si esaurì in meno di un mese (il settembre 1920) fosse paragonabile alle cannonate dell’incrociatore Aurora sul Palazzo d’Inverno. Era certamente più attendibile l’analisi di Ludovico D’Aragona, il segretario generale della Confederazione: "Voi credete (rivolgendosi ai massimalisti, durante la riunione della Direzione del Partito, ndr) che questo sia il momento di far nascere un atto rivoluzionario, ebbene assumetevi la responsabilità. Noi che non ci sentiamo di assumere questa responsabilità di gettare il proletariato al suicidio vi diciamo che ci ritiriamo e che diamo le dimissioni... prendete voi la direzione del movimento".

A questo punto, tutti i membri della Direzione si rassegnarono perché – come scrisse Paolo Spriano nel suo saggio sull’occupazione delle fabbriche - "senza gli uomini della Cgl alla testa delle masse, il grande salto non si poteva fare". Così, la rivoluzione in pratica venne messa ai voti; l’ordine del giorno, presentato da D’Aragona, alla fine prevalse. Il casus belli, tuttavia, consistette - come abbiamo già ricordato – nel rifiuto della maggioranza del Congresso – guidata da Giacinto Menotti Serrati – di espellere i riformisti come pretendeva l’esecutivo della III Internazionale (peraltro attraverso messaggi e interventi di suoi esponenti nel dibattito le pressioni in tal senso furono parecchie in toni da ultimatum). In particolare venne preso di mira proprio Serrati, leader indiscusso dei massimalisti, che, con la sua mozione di maggioranza (comunisti unitari), rifiutava di spaccare il partito pur volendo aderire alla III Internazionale. Si trattò di una resistenza ai diktat di Mosca che sarebbe finita, con l’espulsione di Turati e i suoi compagni, l’anno dopo al XIX Congresso che si svolse a Roma, nel salone del Teatro del Popolo dal 1° al 4 ottobre, poco prima (sic!) della Marcia su Roma dei fascisti (28 ottobre 1922).

A leggere gli atti di quei Congressi i 21 punti dell’Internazionale comunista erano citati come testi di una nuova religione. Oltre a quelli ricordati, ve ne era un altro che suonava come l’annuncio di una legge del contrappasso. Il punto 17 obbligava tutti i partiti - che volevano aderire all’appello di Mosca - a "cambiare nome" assumendo quello di "partito comunista (del Paese) sezione della III Internazionale comunista". La lunga mano della storia ha presentato il conto quando il 12 novembre 1989 (pochi giorni dopo il crollo del Muro di Berlino) Achille Occhetto lasciò di stucco i compagni riuniti nella sezione della Bolognina (tra i quali alcuni ex partigiani) annunciando che era venuto il momento di costituire una forza nuova (in sostanza di cambiare nome al Partito come poi accadde nel Congresso del 1991). Sul nuovo battesimo del partito si sviluppò un dibattito infinito che venne propinato a tutti gli italiani dai media come se quello fosse un problema comune (in fondo parafrasando Benedetto Croce "non possiamo non dirci comunisti"), che divise le famiglie e ruppe i rapporti di amicizia, oltre a provocare delle scissioni.

Molti, non comunisti, allora si chiesero perché era tanto importante cambiare nome e perché rifiutarsi di farlo. Non era proibito continuare a chiamarsi comunisti e d’altra parte non era la fine del mondo esibire un’altra ditta. La questione, in verità, era un’altra. Nonostante le vie nazionali al socialismo, l’eurocomunismo, la denuncia dell’esaurimento della "spinta propulsiva", la solidarietà nazionale, l’accettazione dell’ombrello della Nato e quant’altro, l’esistenza del blocco sovietico rappresentava pur sempre "il socialismo realizzato", la prova che un altro modello politico e sociale era possibile. Per questi motivi il Pci che aveva approvato l’invasione dell’Ungheria del 1956 (salvo ritrattare quando era già PDS), aveva difeso la Primavera di Praga e soprattutto venerato Gorbaciov. Erano – a molti anni di distanza – leader che volevano riformare il comunismo, non abbatterlo.

Gli ex comunisti hanno superato la "questione" della loro storia cancellandola grazie ad una provvidenziale amnesia, dalla quale si sono risvegliati assumendo una nuova identità, che non li costringesse a dare ragione a Filippo Turati che a Livorno aveva rivolto loro queste profetiche parole: "Ogni scorcione allunga il cammino; la via lunga è anche la più breve perché è la sola". E gettando lo sguardo oltre l’orizzonte di decenni ammonì: "Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo che è uno dei più grandi fatti della storia, ma di cui voi farneticate la riproduzione meccanica e mimetistica, che è storicamente e psicologicamente impossibile e, se lo fosse, ci condurrebbe al Medioevo". "Tutte queste cose voi capirete tra breve e allora il programma, che state faticosamente elaborando e che ci vorreste imporre, vi si modificherà tra le mani e non sarà più che il nostro vecchio programma". "Ond’è – concluse Turati – che quand’anche voi aveste impiantato il Partito comunista e organizzati i Soviety in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione perché siete onesti (questo riconoscimento si è rivelato troppo generoso, ndr) – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste diatribe".