vaccino

L'impresa in Occidente fa ancora oggi il suo lavoro, compie il suo destino. Quest’ultimo, sicuramente, significa anche profitto ma non solo questo: l’impresa, infatti, possiede un senso immanente, intrinseco, di passione e azione che è la produzione, il risultato “nella” società, un impegno diretto ad un obiettivo che si realizza, come nel caso dei vaccini anti-covid.

È questo, nello specifico, il senso “sociale” dell’economia di mercato, un contesto complesso in cui intervengono anche l’autorità regolativa pubblica, la metodologia libera di ricerca (scienza e coscienza), il ruolo di controllo e critica delle autorità indipendenti, della pubblica opinione.
Tutto questo, ovviamente, congiura al bene, e tutto questo ancora oggi avviene.
Ciò che accade in altri contesti non ha, purtroppo, la stessa forma plurale e feconda.
Negli ambiti autoritari, cinesi e russi, ad esempio, il vaccino di Stato, inoculato per primi ai soldati, e poi esportato (con chiare mire geopolitiche) ai Paesi in via di sviluppo che ricadono nella loro orbita, senza alcuna garanzia di applicazione di criteri scientifici davvero “pubblicati” e condivisi, non consente la formazione della stessa fiducia che si realizza in Occidente, tanto da considerare – e probabilmente a buon ragione - meno pericoloso il virus di questo “rimedio” di Stato e di potere.

Nell’analizzare, al contrario, il particolare ruolo dell’impresa libera in un ambito regolato dal diritto, emerge la peculiarità della gestione di un mercato disciplinato non dall’autorità ma dalla legge, dal contratto, anche con riferimento ad un “globalismo” della ricerca, della cooperazione, del Mercato, che se può essere – e deve essere - oggetto di giuste critiche per l'esclusione di troppi soggetti ai margini, deve essere però apprezzato, soprattutto in questo caso, per la celerità dell’intervento a fronte dell’eccezione pandemica.
Il vaccino Pfizer è il frutto di una multinazionale fondata da immigrati tedeschi e la società partner BioNTech è sì tedesca ma è stata creata ed è amministrata da un turco.
Il vaccino Oxford - AstraZeneca non è solo inglese e non sarebbe giunto a questa fase di sperimentazione senza il ruolo giocato dall’italiana IRBM di Pomezia, società specializzata nel trattamento dei virus depotenziati usati come vettori per introdurre nell’organismo proteine in grado di stimolare la reazione immunitaria.

E diversi altri vaccini stanno per essere lanciati come frutto del lavoro comune di imprese farmaceutiche europee e americane con Istituti di ricerca pubblici (è in pista anche l’italiana ReiThera assieme all'Istituto Spallanzani).
Si tratta, in breve, del concorso costante tra scienziati e aziende, nel rispetto della cornice pubblica di regole e norme, sollecitata – ed è giusto così – anche dall’ accentramento della gestione dei contratti in mano alla Commissione Europea, garanzia, quindi, di perequazione politica nella distribuzione.
È importante, quindi, a questo punto, approfondire l’origine ideologica e storica del buon gioco di un mercato regolato – e non lasciato al mito dell’automatismo naturale - che possiamo definire sicuramente “liberale” e che, più correttamente, in Europa, può essere qualificato come ordoliberale.

Un pensiero, quello dello “Stato forte e dell’economia sana”, sviluppato a fine degli anni 30 in Germania (la rivista accademica "Ordo", fu fondata nel 1936 dall’economista Walter Eucken, e vi collaborarono sociologi come Wilhelm Röpke e Alexander Von Rüstow, e giuristi come Franz Böhm e Hans Grossmann-Doerth) proprio per reagire all’assalto alla diligenza statale da parte dei partiti eversivi di destra e di sinistra che, progressivamente, attraverso la delegittimazione del Parlamento incapace di maggioranze stabili, affossarono l'esperienza di Weimar, anche utilizzando la sollecitazione - non “governata” - di un esponenziale intervento pubblico improduttivo nel sistema economico, provocato e teso non ad interventi di giustizia redistributiva per stabilizzate il Sistema ma ad accontentare status, appartenenze, gruppi di riferimento dei diversi attori politici in lotta per conquistare un consenso drogato dalle prebende e finalizzato, in ultima sostanza, una volta preso il potere, a delegittimare il sistema liberal democratico.

L’approccio neo liberale europeo, poi, si strutturò nell’opposizione/emigrazione interna al nazismo e, da ultimo, venne definitivamente alla luce nel corso della ricostruzione post bellica – e qui va ricordato anche il ruolo giocato dall’ italiano Luigi Einaudi - divenendo la fonte ideale di un nuovo atteggiamento europeo nei confronti del mercato, la declinazione propria di un’economia conscia della necessità dell’intervento protettivo dello Stato, anche nelle forme della lotta alle concentrazioni monopolistiche capitaliste, proprio per consentire il pieno sviluppo - anche etico - della persona in un contesto di libertà plurale.

È questo approccio che ha condotto - insieme, senz’altro, allo sviluppo di una sinistra propriamente occidentale e democratica - alla nascita dell'Unione Europea.
Rispetto alle analoghe esperienze americane - penso ad esempio alla scuola di Chicago che, in ogni caso, non può certo facilmente essere ricondotta nell’alveo dell’anarco-capitalismo e che conosce, anch’essa, la necessità della presenza perequativa dell’intervento statale non “affaccendato” - l'attenzione europea alla giuridificazione dell’ economia, all’abbandono accanto al mito socialista della pianificazione “sovrana” anche del mito liberista ottocentesco del “laissez faire, laissez passer”, si caratterizza con decisione – in sintesi – nel superamento dell’ipotesi di una regolazione spontanea, automatica, del mercato.

Come il socialismo, quindi, non è scritto nelle carte del destino, così non è “naturale” l’equilibrio realizzato da una “mano invisibile”.
Questa illusione “trascendente” deve lasciare spazio al ruolo “artificiale” della Norma che sostanzia un nuovo protagonismo dello Stato non più come attore di un intervento “economico” politicizzato, vittima delle plurime sollecitazioni sociali promananti dalle fazioni in lotta per il Potere, ma finalmente “arbitro” delle regole del gioco, fattore della cornice giuridica - di garanzie e di doveri - la cui realizzazione “protetta”, attraverso anche lo sviluppo della legislazione sociale, garantisce l'esercizio libero dell’azione umana e dell’ intrapresa individuale e associata.
Come è noto, questo che rimane il più importante approdo “di successo” della elaborazione europea del Secondo Dopoguerra – non solo economica ma politica e sociale - è stato oggetto di numerose critiche; penso al famoso seminario al collège de France (1978-1979) del filosofo Michel Foucault sulla “Nascita della biopolitica” che ha analizzato, tra l’altro, proprio l’impostazione “ordoliberale”.

Per Foucault, la libertà economica nel contesto ordo-liberale diventa il fondamento dello Stato.

Si tratta, quindi, di aver superato definitivamente il contrasto liberale classico fra Stato e Società, si tratta, quindi, di considerare vetusta la storica istanza liberale “negativa” sull’intervento dei pubblici poteri, non si tratta più di allontanare come improprio il ruolo dello Stato nelle dinamiche sociali per assicurare, invece, allo Stato un compito proprio, nuovo: non più quello, quindi, di ritrarsi di fronte all' intraprendenza privata “anarchica” ma quello, appunto, di inglobare in sé le dinamiche del mercato libero - della grande società - e di regolare – con il diritto - un contesto di uguali e pari opportunità/possibilità che possano consentire, anche attraverso, quindi, l'intervento perequativo, l'attivazione della scala sociale, la formazione di un ceto medio forte, il depotenziamento dello scontro sociale attraverso la delegittimazione della lotta di classe di matrice rivoluzionaria.
Per il filosofo francese, questa impostazione istituzionale e culturale fa strumentalmente slittare il focus del capitalismo dallo scambio alla concorrenza, ingenerando le politiche di un “liberalismo positivo” che informa di sé lo Stato, rendendolo nuovamente complice di un processo “artificiale” di imbrigliamento della libertà.

In questo contesto, Foucault denuncia un atteggiamento “pedagogico” proprio del pensiero ordoliberale e dell’economia sociale di mercato: il compito di fare di ogni singolo un imprenditore, di farne il centro bio-politico di una “mutazione” improntata alla produzione.
In realtà, la critica e l'analisi di Foucault è ancora oggi molto importante e merita attenzione.
Nel riconoscere – per quanto in maniera oppositiva – la strategia di “terza via” propria dell’ordoliberalismo, ci aiuta ad individuare e ad escludere gli aculei ideologici dello statualismo moderno e post-moderno.
In ordine allo Stato, infatti, dobbiamo ben distinguere tra opposte tendenze proprie della modernità e della sua evoluzione: il potere può essere declinato come iper politico e ideologico, oppure va affermato con le forme dello Stato di diritto.
Se lo Stato sovrano assoluto è in sé da rigettare perché “dittatoriale”, anche l’anarchismo delle fazioni in lotta che moltiplicano le richieste di intervento pubblico per spesa improduttiva legata corporazioni e classi, è un possibile esito “iper-politico” ed escludente della statualità.
Questa è stata, lo ripetiamo, la rovina di Weimar, il punto di rottura attraverso il quale l’appropriazione “legale” del potere ha potuto condurre alla dissoluzione, dall’interno, del metodo liberale e della democrazia parlamentare.

Nel sistema ordoliberale, invece, lo Stato contribuisce ad una dinamica sociale libera, ad una espressione economica efficiente, ad una dialettica contrattuale priva di esiti eversivi perché, appunto, depoliticizzata.

Se la libertà politico/economica - intesa come società viva e dinamica - fonda lo Stato allora, è ovvio, da un punto di vista istituzionale, ciò significa che il diritto - la forza statale, appunto - non può che assumere anche una prospettiva di “giustizia” e, quindi, di un intervento “neutralizzante” le “estreme”, teso a un dover essere migliorativo e inclusivo per la tenuta del sistema.
La “natura”, il ‘lasciar fare’, per ciò, è riconosciuto per quello che è: il regno sempre possibile e in agguato dell’ homo homini lupus, della prevaricazione.
In tal senso, quindi, la giuridificazione dell'economia nello “Stato forte ma non affaccendato”, attiva la dinamica sociale, libera le potenzialità concusse, forma la classe media, inattiva la dinamica rivoluzionaria/palingenetica.

La stessa retorica del singolo imprenditore di sé e fautore del proprio destino in un contesto protetto e regolato - indipendente dall’ intervento iper-politico di questa o quella fazione rappresentativa di interessi specifici e lontani dal bene comune - è evidentemente una retorica emancipativa.
Una retorica persuasiva che sta alla base della costruzione Europea nell’Unità sovra-statuale: le comunità economiche sono state regolamentate proprio al fine di escludere per sempre guerra e fame dal Continente, per giungere alla strutturazione di una casa politica originale che proprio quegli scopi – mai più guerra e fame – coltiva per il presente e per il futuro, nel Diritto.

La libertà di impresa, la concorrenza, il merito, l’intervento perequativo, si palesano, dunque, come forme di normalizzazione di un conflitto sociale interpretato come distruttivo (con un esito bio-politico già vissuto e nefasto) quando dalla dialettica corretta - anche aspra, tesa alla stipula del contratto collettivo o all'ottenimento ex lege di migliori condizioni di vita per i lavoratori - giunge alla deriva rivoluzionaria propria dell’affermazione “privatistica”, settaria, di interessi che tendono – nella frammentazione di una spinta parossistica ad una spesa pubblica funzionale al consenso elettorale - alla distruzione delle acquisizioni più genuine della modernità occidentale liberale: l'uguaglianza del soggetto giuridico, la rappresentanza priva del vincolo di mandato, l’imparzialità dell’Istituzione, la laicità dello Stato a fronte dell’assalto teologico-politico delle proposte salvifiche, sempre illiberali sia che siano di Destra o di Sinistra.

Attraverso la formula ordo-liberale, dunque, ancora oggi, nel contesto della UE, si lavora comunitariamente per liberare le società europee dagli istinti devastatori tesi a distruggere, attraverso l'intervento confuso a sostegno di questo quel partito, di questo o quel gruppo, prima l'economia libera e poi la libertà e la responsabilità personale, concussa dall’affermazione progressiva di un interventismo autoritario basato sulla “propria” verità e giustizia, su un revanscismo del culto della Tradizione e dell’istinto difensivo di matrice nazionalistica.

La tutela, di contro, di un sistema - per quanto possibile armonico - fondato sul diritto occidentale, sull’ordine della norma generale e astratta e sulla “misurazione” dell’intervento perequativo, esclude l’acuirsi dello scontro radicale assoluto tipico di quei partiti che, utilizzando impropriamente il metodo liberale, tendono ad acquisire il potere per, poi, deporlo.
È, infatti, l’incubo del disordine totalitario a configurare il pericolo sempre sotteso al rivoluzionarismo demagogico, populistico.
Le regole del gioco liberale e democratico, invece, consentono davvero, oggi come non mai, l’affermazione del Singolo nella “possibilità” di un’auto imprenditorialità che non è destino, non è trasformazione dell’autentico umano ma, appunto, strutturazione di un percorso accessibile come “occasione” nella contingenza e nel pluralismo.
Il risultato è la formazione di un ceto medio produttivo – uniformato dalla concorrenza - fondato sul lavoro, sull’impegno e sul sacrificio – non miti vuoti – ma esistenziali propri della vicenda umana, imprescindibili fattori di valori e di benessere.
Lo stimolo sociale, statale, sovra-stuatuale, comunitario, occidentale ed europeo all'intraprendenza privata (il caso dei vaccini è, in tal senso, emblematico) è, sostanzialmente, lo stimolo al lavoro incastonato nell’impresa e alla produttività che realizza benessere comune, sociale e, per tanto, istituzionale.

Il contrario di questo atteggiamento non è la “liberazione dalla fatica” ma un nuovo quadro - davvero bio-politico - di statizzazione dell'individuo, nel senso dell’autoritarismo politico.
La trasformazione dell’essere piegato ad esigenze proprie del potere, la riduzione della persona a burocrate funzionale ad una leadership potenzialmente totalitaria, “ridotto” nelle forme ottuse e di un lavoro standardizzato non produttivo per sé o per la società ma per le esigenze del gruppo, dell’interesse, dell’Uno.
Il rischio, oltre i confini della liberal-democrazia, è sempre quello della squalificazione dei lavoratori ai “prolet” di orwelliana memoria, dell’asservimento a nuove caste di partito dedite alla decifrazione (e alla riscrittura in una ennesima neo-lingua) delle carte del passato e del futuro, contro ogni incertezza, contingenza, errore, possibilità, impegno non garantito, risultato incerto, discussione scientifica, progresso ambiguo – ma libero – che sono, tutti insieme, gli elementi propri della modernità occidentale.