mascherine grande

Quella dei trasporti pubblici continua a essere la chiave più utile per chiarire i dilemmi della strategia anti-Covid e l’obiettiva impossibilità di attuarla – qualunque linea si scelga: dalla più “cinese” alla più “svedese” – senza ledere in tutto o in parte diritti e libertà fondamentali, che in linea di principio e in condizioni normali si riterrebbe inaccettabile sacrificare.

Se vogliamo fermare le interazioni, dobbiamo fermare le attività. Se non fermiamo le attività, perché non sapremmo quale sarebbe la sostenibilità complessiva, e non solo sanitaria, di un secondo lockdown, non possiamo fermare i trasporti. Ma se continuiamo a fare circolare treni locali, metro e autobus ben oltre la soglia di rischio teoricamente tollerabile, smentiamo il presupposto della linea dura, usato in modo “esemplare” su altri fronti. In tutti i casi – qualunque scelta facciamo – facciamo dei danni che qualcuno pagherà.

Anche una logica ragionevole di “riduzione del danno” non è così semplice da congegnare perché i diritti e gli interessi lesi da qualunque decisione e non-decisione sono rivali e non sono gerarchicamente ordinabili su una scala di valore oggettiva e unanimemente riconosciuta. In una pandemia nessuno può rischiare la propria vita senza mettere a rischio quella altrui, ma non tutti possono salvare la vita allo stesso prezzo. Il lockdown è costato un piccolo sacrificio ad alcuni ed è stato una rovina per altri e non esistono meccanismi redistributivi oggi politicamente sostenibili.

Il maggiore e il peggiore degli inganni di una strategia di comunicazione sbagliata e demagogica adottata fin dall’inizio – quella, per intendersi, dello strombazzatissimo “andrà tutto bene” – è stata di provare a persuadere l’opinione pubblica che il costo della Covid compliance (anche al di là delle inadempienze e delle inefficienze dei governi nazionali e locali, che ne hanno aggravato il peso) sarebbe stato equo e non avrebbe amplificato differenze di redditi, di diritti e di capacità sociali tra ceti su cui sia la malattia, sia le strategie di contrasto hanno inciso (e si sapeva che avrebbero inciso) in modo del tutto diverso.

Infatti anche le statistiche economiche testimoniano che il Covid ha radicalizzato le disuguaglianze ben più di quanto abbia peggiorato il tasso di mortalità complessivo della popolazione. Lo stesso lockdown, al di là degli aspetti psicologici, ha inciso molto diversamente sulla vita professionale e sul diritto alla salute di chi aveva lavori e abitazioni diverse.

In tutte le città più importanti d’Europa, ad esempio, come documenta un ottimo pezzo di Gianni Balduzzi su Linkiesta, il contagio è oggi più diffuso tra ceti e quartieri in cui la densità abitativa è più alta, le case più affollate e gli occupati (in genere operai generici e specializzati, lavoratori domestici, artigiani, commercianti…) non possono lavorare in smartworking e prendono più frequentemente i mezzi di trasporto pubblico.

Proprio la questione dei trasporti pubblici – che è quella dove le istituzioni si sono dimostrate forse più inadempienti e dove sarebbe stato comunque impossibile adeguare davvero i servizi a misure assolute di prudenza – è stata comunque gestita in modo diverso da come si è fatto sul fronte della cosiddetta “movida”, visto che l’appello al “prima la salute” ha lasciato spazio a un compromesso che implicava sia per lo Stato che per il cittadino l’assunzione di un rischio senza il riparo di un principio di precauzione assoluto. Il rispetto del limite dell’80% rispetto alla capienza massima, già in sé contestato dagli esperti sanitari, non viene mai fatto rispettare dove la domanda di mobilità eccede l’offerta. Mentre il Governo commissaria le palestre con regole asfissianti, sui treni pendolari di Trenitalia e di altre concessionarie pubbliche si viaggia in piedi guancia a guancia.

D’altra parte, non si potrà realisticamente pensare di contare su un autogoverno responsabile della pandemia (cioè: ciascuno prenda i rischi che vuole, avendone coscienza) quando l’emergenza sanitaria avrà superato il livello di guardia e l’effetto panico avrà paralizzato la società come e più degli effetti del lockdown. Non è vero che si può vivere liberamente e normalmente, quando intere aree del Paese esauriscono lo spazio negli obitori e devono parcheggiare i morti dove capita o tumularli in fosse comuni. A quel punto i ristoranti, gli alberghi turistici, i luoghi di svago e di socialità, anche se rimanessero aperti, sarebbero di fatto chiusi. E anche i sani (che se lo possono permettere) si darebbero malati, per non andare al lavoro e quindi non correre rischi.

Però – è già accaduto, e tornerà ad accadere – in tal caso un lockdown generalizzato verrebbe presentato come una conseguenza della inadempienza di massa alle prescrizioni, mentre è e sarà, in Italia come in tutto il mondo, la prova della irrimediabile vulnerabilità delle società contemporanee a rischi sanitari apparentemente “arcaici”. I sistemi di tracciamento e di isolamento dei contagi sono falliti pressoché ovunque. Mobilità, densità della popolazione, modelli abitativi, interazioni sociali, libertà personali, stili di vita… tutto congiura a favore del virus, di qualunque virus.

Il rifiuto di considerare la pandemia un fenomeno oggettivo – che non a caso colpisce diverse aree del mondo con conseguenze sostanzialmente analoghe, a partire da dati comuni strutturali (mobilità, densità, integrazione…) – sta portando a “soggettivizzare” impropriamente (è colpa di questo, è colpa di quello) una dinamica purtroppo in larga misura indipendente dagli scrupoli e dalla diligenza delle vittime potenziali e reali.

Se e quando si “chiuderà”, cioè non si faranno coprifuoco simbolici, ma lockdown reali, lo si farà senza tenere una precisa contabilità dei morti economici e sociali, esattamente come nella tanto vituperata “strategia svedese” non si è dato un peso assoluto ai morti Covid, rispetto agli interessi generali della comunità (che non hanno a che fare solo con i quattrini, ma anche con i diritti, la salvaguardia delle libertà personali, ecc. ecc.). E tra “noi” e “loro”, insomma, non c’è una differenza come tra gli angeli e i diavoli.

La lotta al Covid, insomma, non è l’attuazione di un imperativo categorico kantiano, ma un lavoro terribilmente sporco, cioè una scelta tragica che, in nome di un interesse generale calcolato in modo comunque discrezionale, stabilisce chi, di cosa e perché fare morire (in senso fisico, sociale, economico). Per questo la pandemia non è un problema, ma un dilemma, dove tutte le alternative possibili suonano come almeno in parte insopportabili e moralmente ripugnanti, a maggior ragione di fronte all’impossibilità di ristorare tutte le vittime designate, come sarebbe teoricamente giusto, ma sostanzialmente impossibile. Insomma, il Covid, oltre a essere una emergenza sanitaria, è un’irrisolta questione di equità.

Per questo è ancora più insopportabile che l’esigenza di una “collettivizzazione forzata” della società non sia presentata come un’obbligata e temporanea scelta d’emergenza, ma come una meritata sanzione morale al popolo vizioso e cattivo, che si ammala perché si vuole divertire, non sta a casa e non esce solo per andare a lavorare.

@carmelopalma