La collettivizzazione del Parlamento. Un Sì contro la libertà politica
Istituzioni ed economia
I nuovi (e inaspettati) sostenitori del Sì al referendum costituzionale per il taglio dei parlamentari cercano, in qualche modo, di far passare l’approvazione della legge costituzionale come uno step neutrale e meccanico sulla strada di “ben altre” riforme, come (forse si potrebbe dire) un’amara medicina che bisogna mandare giù per comportarsi da adulti e cogliere nelle miserie del presente le occasioni del futuro.
Il Partito democratico, per giustificare il rovesciamento delle posizioni sostenute fino a 12 mesi fa, sembra stia cercando di addolcire (e quasi di nascondere, per la verità) la propria campagna per il Sì al referendum, facendo passare questa scelta di campo come un adempimento burocratico. Un asettico disbrigo, quasi obbligato.
Tuttavia, una concezione “burocratica” di questa riforma è errata e fuorviante. Difatti, il taglio dei parlamentari, come realizzato, dal punto di vista “burocratico-efficientistico” è una non-riforma, sostanzialmente insensata. Perché 400 deputati e 200 senatori? Perché piacciono i numeri tondi e multipli? Il numero non è stato definito con alcun criterio razionale. La nuova composizione non potrebbe, inoltre, risolvere alcuno dei problemi che si pone di superare riguardo l’efficienza delle camere, almeno non senza i mirabolanti correttivi o le ulteriori riforme che ne dovrebbero scaturire. Una nuova teoria, che potremmo definire della “generazione spontanea delle riforme” (dopo quella dei microorganismi), è stata infatti pubblicizzata da gran parte degli esponenti del PD e della stampa a favore del Sì: senza l’apporto di alcun influsso “vitale”, senza alcuna volontà senziente, da tale riforma verrebbero spontaneamente generate una serie di altre riforme perfette, di leggi elettorali e di nuovi regolamenti delle Camere, senza una apparente e logica spiegazione.
Dunque, se l’apporto “burocratico-efficientistico” del taglio è irrilevante, come appare, e se esso probabilmente non creerà per mitosi una serie di migliori riforme costituzionali, come è razionale prevedere, è palese che tale riforma abbia soprattutto un contenuto e una narrazione “politica” o meglio “anti-politica”, come ha peraltro sempre sostenuto il Movimento 5 Stelle. Essa vuole, da una parte, eccitare e sobillare i diffusissimi umori “anticasta”, ma soprattutto convalidare e ratificare la teoria antiparlamentare della Casaleggio & Associati, secondo cui il Parlamento sarebbe inutile ed il futuro sarebbe la democrazia diretta. Il PD e il Parlamento (quasi tutti i votanti nell’ultima lettura alla Camera, con solo 14 contrari) hanno voluto porgere la testa al boia, implorando la propria esecuzione. I parlamentari, in uno spettacolo a reti unificate di masochistica sottomissione hanno confermato di essere inutili, di essere troppi, di essere inadeguati a rappresentare la volontà generale. L’obiettivo politico-ideologico (meglio antipolitico) della riforma è la soppressione del Parlamento come intermediario inutile da parte della volontà generale. Potremmo dire che questo è quasi un sacrificio, il cui sacerdote officiante è il Movimento 5 Stelle, che dovrebbe mondare anni di politica corrotta, che dovrebbe mondare la “naturale” immoralità del parlamentarismo e restituire il potere al popolo frodato.
Alcuni parlamentari che hanno votato in quarta votazione a favore della riforma per ottemperare al patto di governo passato o futuro, dichiarano oggi di voler votare No nel referendum. Ciò, oltre ad essere un controsenso logico, è anche una ferita del Parlamento e una conferma dei presupposti (dei parlamentari non ci si può fidare) e degli obiettivi (i parlamentari devono essere meri “portavoce”, ma non della propria, di voce) del programma antiparlamentare del M5S. Il dire e il contraddirsi e il ricontraddirsi furioso di centinaia di parlamentari – di cui ovviamente non metto in dubbio la sincerità e le ambasce legate al ruolo in questo frangente – finisce per diventare una sorta di preambolo a una nuova costituzione antiparlamentare della politica italiana e all’introduzione del vincolo di mandato. Se i parlamentari in Parlamento non si sentono liberi di votare per come la pensano, ma riacquistano questa libertà appena fuori dal Parlamento, confermano che la libertà non è compatibile con il loro “ufficio pubblico”, visto che essi stessi hanno ritenuto di esercitare il proprio voto secondo una supposta volontà generale, che esclude qualunque pluralismo.
E che il principale intento della riforma - il cui contenuto verrebbe ratificato dalla volontà popolare tramite referendum – sia proprio quello di introdurre una politica antipolitica e contraria al pluralismo, emerge con chiarezza anche dalla narrazione mediatica. Infatti, nonostante i rappresentanti del Sì siano in genere molto riluttanti a partecipare alle tribune televisive sul referendum e ad alimentare il relativo dibattito, quando effettivamente partecipano, l’impostazione “antipolitica” della riforma emerge con chiarezza.
Esponenti del Movimento 5 Stelle sono arrivati a sostenere che la riforma sia vantaggiosa, in quanto riducendo i parlamentari è più semplice “controllarli”. Tale concezione è esattamente quella che vuole un’unica verità politica – la corretta volontà collettiva del popolo - e tutte le altre posizioni come maligne, e corrotte. Concezione che combatte il pluralismo, il dibattito, la diversità di opinioni come frivole quisquilie e perdite di tempo. La negazione delle necessità del pluralismo è la postulazione di una collettivizzazione del Parlamento, o della morte della politica come esercizio di libertà in primo luogo personale.
Il fatto che questa riforma non sia un mero e asettico adempimento burocratico, ma parte di un progetto politico-ideologico populista che ha come obiettivo la struttura “liberale” delle istituzioni politiche, è dimostrato anche dagli espliciti richiami che esponenti del M5S (come il Presidente della Commissione Affari costituzionali Brescia in una delle ultime tribune elettorali) hanno fatto al secondo modulo della riforma istituzionale grillina ovvero al referendum propositivo.
Le due riforme - la seconda pur essendo molto lontana dall’approvazione rimane, come visto, nel cuore e nella mente dei grillini - e la loro narrazione implicherebbero una totale deresponsabilizzazione dei parlamentari e dei politici, in quanto essi, spogliandosi dalle proprie opinioni, diventerebbero dei meri esecutori della volontà popolare (come forse piacerebbe dire a Grillo, dei “megafoni”) privi di qualsiasi responsabilità autonoma e quindi di qualsiasi “accountability”. Come, del resto, è accaduto nel caso dei parlamentari che, pur essendo dichiaratamente contrari, hanno votato a favore della riforma in Parlamento: in pratica hanno sostenuto di non esprimere una propria volontà politica, ma una diffusa opinione dell’elettorato. Una vera accettazione morale e intellettuale della dittatura della maggioranza.