renzi dalema grande

Tutto quel che si muove nella politica (istituzionale) italiana sembra un mezzo in vista di un unico fine, il “partito di Renzi”. Non è troppo chiaro cosa muova e tenga insieme un disegno che ha così tanti attori, animati, teoricamente, da interessi diversi da quelli di Renzi e pure volonterosamente al servizio dell’ex leader del PD, per dargli tempo, per fargli spazio e perfino per fornirgli gli alibi della rottura. Però tutte le mosse di tutti i protagonisti e comprimari del “teatrino della politica” sembrano congiurare verso questo obiettivo, guidate da una mano invisibile.

Del Conte II, l’unico risultato politico certo è stato quello di avere salvato Renzi dalla decimazione elettorale, consegnandogli nel contempo il diritto di vita e di morte sull’esecutivo. Della scelta del PD e di Zingaretti di smentire se stessi e di accondiscendere a un governo Conte II, prestando il soccorso rosso alla prosecuzione del potere giallo, l’unica conseguenza certa che deriverà sarà la scissione del partito, non certo la difesa della sua unità. L’entusiasmo con cui Franceschini si affretta a esportare la nuova alleanza sul piano locale, offre a Renzi il pretesto per mostrarsi meno entusiasticamente pro-M5S, e riequilibrare la coalizione con un partito a sua immagine e somiglianza.

Se, come prevedono i bookmakers di Palazzo, tra qualche giorno Renzi annuncerà l’exit, potrebbe perfino avvenire che al partito di Renzi, fuori del PD, continui ad associarsi una forte corrente renziana dentro il PD. Qualcuno se lo porta fuori con sé, qualcuno lo lascia dentro a condizionare Zingaretti. Con la scissione, Renzi potrebbe insomma sia lasciare, sia raddoppiare.

È tutto chiaro, fuorché l’essenziale, cioè il perché. Qual è la ragione politica per cui Renzi fonda il “suo” partito, su quale divisione o differenza profonda e non rimediabile poggia una decisione (teoricamente) irrevocabile, come quella della rottura di un partito di cui proprio Renzi ha interpretato la vocazione maggioritaria e inclusiva?

Dal punto di vista politico-culturale la vera rottura con la tradizione della sinistra italiana venne consumata da Renzi con la conquista del PD e con il suo tardivo e parziale riallineamento a un riformismo economico-sociale e istituzionale poco rispettoso dei totem e dei tabù della “ditta”. La rottura di Renzi, per semplificare, furono il Jobs Act e la riforma costituzionale e la capacità di portarsi appresso in questo radicalismo riformistico un partito ostaggio di un parossistico conservatorismo politico-costituzionale.

Dopo il referendum del 2016, Renzi ha cambiato registro e da molti punti di vista si è arreso prima degli altri a sinistra alla “dittatura populista”, reinventando un renzismo movimentista, concorrenziale, ma dal punto di vista sostanziale neppure così alternativo a quello del M5S. La campagna elettorale del PD nel 2018 è stata all’insegna del contro-riallineamento del PD a tutte le parole d’ordine del convenzionalismo anti-politico, a partire da quelle anti-austerità e anti-Ue. Dopo le elezioni, le primarie che hanno portato Zingaretti al Nazareno hanno suggellato, senza alcuna obiezione di Renzi, il “ritorno a sinistra” del PD. Il passaggio che ha portato alla formazione del nuovo esecutivo ha rottamato anche l’ultimo elemento di differenza renziana, il #senzadime.

Allora, perché diavolo Renzi esce dal PD? Perché esce da un partito che mai come oggi è indistinguibile da quello che lui pensa, dice e fa? Le uscite di Calenda e di Richetti hanno un perché non solo soggettivo, ma oggettivo. Opinabile, ma indiscutibile. L’uscita di Renzi sembra la copia rovesciata di quella di D’Alema: la reazione di un potente, abituato a pensare che “il capotavola è dove mi siedo io” e indispettito da chiunque non sia più disposto a riconoscergli questa pretesa.

Ovviamente questo non vuol dire che il nuovo partito renziano sia destinato a fare la fine di Leu o che il PD sia destinato a uscire da questa scissione con le ossa rotte, come dalla precedente. Il partito di Renzi uscirà ovviamente al centro e non a sinistra, in un campo che lo spostamento a sinistra dell’esecutivo rende anche elettoralmente propizio. Ma tutto questo non dice nulla del significato di questa rottura, che è quello che è: non troppo politico, perfino troppo “di potere”.

@carmelopalma