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L’idea del superamento del PD in una nuova formazione europeista può considerarsi tanto un segno di debolezza, quanto di disponibilità. Visto che quanti più decisamente propongono questo scarto – da Cacciari a Calenda – non hanno nulla da guadagnare, ma tutto da perdere a mischiarsi con i travagli e le convulsioni ideologiche del PD, si può certamente escludere che la proposta abbia i caratteri della pura strumentalità, per passare in qualche modo la “nottata” del prossimo voto europeo.

La scelta di innalzare il vessillo europeista di fronte alla marea montante del voto sovranista significa al contrario cogliere il vero punto di scontro e di sfida in Europa, che riguarda l’Europa stessa nella sua dimensione politica. Inoltre, è importante che esponenti della sinistra, diciamo così, “non socialista” identifichino nell’europeismo un ideale progressista più attuale e meno archeologico di quello con cui, dalle fila del perenne dissenso interno, si vorrebbe chiamare a raccolta l’antico popolo di sinistra.

Sarebbe però utile che questo sforzo politico non apparisse intellettualmente corrivo con il mainstream antieuropeo e non si limitasse a replicare, ribaltandone semplicemente il segno e la direzione di uscita, le critiche all’Europa così com’è e come fino ad oggi ha funzionato. E francamente, a leggere davvero tutte le cose che Cacciari dice (e non solo il loro dispositivo politico), l’impressione è che questa rifondazione europeista della sinistra italiana rischi di diventare non un’alternativa, ma una variante del pensiero populista.

I populisti - dice in sintesi Cacciari - sono un sintomo della malattia europea, non una malattia in sé. Se il welfare europeo avesse meglio protetto i perdenti della globalizzazione e il federalismo europeo avesse consentito di esprimere, in forma compiutamente democratica, una vera sovranità europea, allora gli europei (e gli italiani) non avrebbero consegnato ai populisti e ai nazionalisti le proprie istanze di protezione e, lato sensu, di potere.

Se però si accetta che il populismo sia un processo "reattivo", cioè una rivolta contro l'Ue per la promessa tradita di un destino di progresso e benessere, si dà una lettura neppure nazionale, ma meramente "italo-meridionale" di un fenomeno che è di massa, ma non è solo popolare, nel senso dell'appartenenza agli strati sociali economicamente più deboli e impoveriti. Il populismo ha impestato le regioni europee più ricche (la Baviera, la Lombardia…) e tutti gli stati ex europei che hanno tratto i massimi vantaggi dal processo di allargamento (a partire dalla Polonia e dall'Ungheria). Il populismo ha dilagato nei settori sociali (pensiamo all'impresa del triangolo dell'export lombardo-veneto-emiliano) cui questa Unione europea (cioè l'euro e il mercato comune) hanno offerto negli ultimi lustri incredibili possibilità di successo. L'ostilità sociale per i processi di integrazione politica e economica non ha una base censuaria, ma ideologico-culturale. La mappa del voto populista, nelle sue diverse articolazioni, non è affatto la mappa dell'Italia o dell'Europa (o dell’America) più povera.

Temo che i fatti suggeriscano un’interpretazione del populismo molto più problematica, e meno ossessivamente colpevolistica verso questa Europa "a metà", di quella che Cacciari, non troppo diversamente da Zingaretti, considera alla stregua di una verità storica assodata.

In Francia, in Italia (nelle diverse "Italie"), nel Regno Unito, nel quartetto di Visegrad, nella Germania profonda, nei paesi nordeuropei e ovviamente negli Stati Uniti il principale vettore populista è stato - sempre e ovunque - quello etno-nazionalista. Anche su questo caso, Cacciari sostiene che la riabilitazione del discorso scopertamente razziale, quando non razzista, sia un fenomeno ulteriormente derivato, un sottoprodotto del prodotto populista. E se invece fosse, più concretamente, una radice sepolta, ma non recisa, cioè una matrice culturalmente "originaria", che è tornata a produrre i suoi frutti appena l'ambiente politico esterno le è tornato favorevole?

Gli alti (e obbligati) livelli di immigrazione e la grande redistribuzione globale di costi e opportunità economiche, con forme di sempre più aggressiva competizione "esterna", non hanno prodotto l’identitarismo etnico, ma l’hanno fatto germogliare dopo la gelata della Guerra Fredda e dell’apparente trionfo liberale post 1989. Stava lì nella storia americana e nella storia europea da secoli e si è riaffacciato con potenza infestante.

Allo stesso modo le ricette protezioniste e il nazionalismo economico paranoicamente vittimistico possono davvero considerarsi un effetto dello tsunami della globalizzazione o non riflettono forse un approccio politico, e solo secondariamente socio-economico, addirittura pre-capitalista? L'ingenuo mercantilismo che ha contagiato decine di migliaia di elettori euro-atlantici sembra più una memoria della specie politica occidentale pre-democratica che una strategia per contrastare l'invadenza dei paesi ex emergenti e oggi non solo emersi, ma "sommergenti" molti settori delle economie occidentali.

Tutti questi apparenti prodotti politici della globalizzazione sono sindromi politiche ricorrenti in tutte le fasi di crisi della storia europea. Non solo non c’è nulla di derivato dalla globalizzazione, ma non c’è proprio nulla di nuovo. Da questo punto di vista il populismo è l'Occidente che rientra nella caverna. Come nel mito Platone, per chi sia giunto a vedere le cose, l'impresa più difficile e rischiosa è provare a convincere della vera natura della realtà i compagni imprigionati dalla "verità" delle ombre.

La tesi di Cacciari è inoltre paradossale anche nell'imputazione a Bruxelles per l'imperfezione delle istituzioni europee e per la caducazione di un processo di integrazione federale sacrificato alla preminenza del Consiglio e degli stati membri sulla Commissione e sul Parlamento.
L'Europa è democratica e federale nella esatta misura in cui gli stati e i cittadini europei hanno consentito che lo fosse. Gli europeisti non hanno sbagliato, hanno perso.

Nessuna euroburocrazia ha congiurato contro gli "Stati Uniti d'Europa". La tremenda battuta di arresto in termini istituzionali al processo di integrazione arriva da due referendum popolari del 2005, prima in Francia e poi in Olanda, con cui due dei sei paesi fondatori bocciarono la cosiddetta Costituzione europea, malgrado essa non realizzasse alcuna vera cessione di sovranità in senso federale. Tutti gli altri passaggi che hanno istituzionalmente consolidato la costruzione europea così com'è (a partire dal Trattato di Lisbona) hanno girato intorno a questo veto implicito, senza mai sfidarlo e soprattutto senza mai poterlo concretamente sfidare. Il populismo, dunque non è una reazione al federalismo imperfetto, è al contrario la ragione dell'imperfezione e del sistematico sabotaggio di ogni tentativo di allargamento delle competenze dell'Unione, a partire dai temi su cui gli stessi populisti lamentano quotidianamente: "L'Europa dov'è?". Perché concedere ai nazionalisti di apparire i vendicatori di un delitto di cui sono invece i soli e unici colpevoli?

Infine, che senso ha continuare a contestare gli esiti dell’Europa economica per i ritardi dell’Europa politica? A sinistra, l’oblio del sogno spinelliano è diventato ormai per molti l’alibi per contestare l’Europa liberista, l’austerità, e gli altri feticci polemici della retorica populista. Ma sostenere che un’Europa politicamente incompleta abbia imposto un’agenda economica sbagliata per una sorta di peccato originale è davvero surreale. Il mercato comune ha funzionato, per chi ne ha raccolto le opportunità e l’Italia è certamente tra questi Paesi, come dimostrano i dati dell’export. L’euro è stato un riparo per chi ha saputo servirsene e non per chi ne ha dissipato i vantaggi, come ha fatto l’Italia mangiandosi con l’aumento della spesa pubblica il dividendo dei minori interessi sul debito pubblico.

Non c’è dubbio che la costruzione europea non può rimanere a metà del guado. Ma sta lì dov’è oggi, in balia di tutte le correnti, perché così hanno deciso gli equilibri politici nell’Europa post Maastricht, non per una macchinazione “tecno-europeista”. E si tratta esattamente degli equilibri che è necessario ribaltare per evitare la dissoluzione politica dell’Europa.

@carmelopalma