Walter Veltroni

Nicola Zingaretti ha annunciato la candidatura alla segretaria del PD, nella sua intervista a Repubblica, presentandosi come un "candidato contro" tutto quello che il PD è accusato di essere stato e di avere fatto tra il 2011 e il 2018. Prima con il sostegno obbligato al governo Monti, di fronte al rischio del default, poi con i governi della XVII legislatura, contraddistinti dalla sostanziale continuità degli impegni contratti dal nostro Paese con i partner europei e, implicitamente, con gli investitori internazionali.

Zingaretti denuncia l'assenza di "popolo" e di "sogni", quella sorta di oblio delle parole e dei sentimenti della sinistra, che pochi giorni prima anche Walter Veltroni aveva di fatto lamentato come frutto avvelenato della lunga stagione di governo post 2011.

Come Veltroni anche Zingaretti sembra pensare che il fenomeno populista segni semplicemente il trionfo della destra e la sconfitta della sinistra. Si tratta di un'analisi quantomeno datata, se non pavloviana per il riflesso condizionato di leggere le crisi sociali e politiche del XXI° secolo come meri "disordini" sfuggiti alla paternalistica contenzione di un welfarismo anestetico e di una narrazione sociale pacificamente inclusiva.

Né Zingaretti, né Veltroni, né alcun altro protagonista dei travagli politico-culturali del PD sembrano volere ammettere che la crisi internazionale della sinistra (cioè dei partiti socialisti) ha ragioni strutturali e oggettive, non congiunturali e soggettive, perché gli effetti della globalizzazione, anche sul piano demografico, hanno messo in moto in tutto l'Occidente nuove paure e nuovi conflitti (anche "di classe") e rimescolato le domande di protezione, mentre la sinistra tradizionale, per effetto delle stesse dinamiche, è stata privata del suo principale strumento redistributivo: la spesa sociale dello stato nazionale.

Ma soprattutto Zingaretti, Veltroni e i dirigenti del PD non ammettono che per le stesse ragioni è andata ancora più profondamente in crisi, ovunque nel mondo, la destra liberal-conservatrice, repubblicana e popolare, soppiantata da una destra che ha completamente rovesciato i presupposti ideologici della sua tradizione liberale: stato minimo, libero mercato, primato della società sulla politica, divisione dei poteri e contrasto all'onnipotenza "costruttivistica" dei legislatori e dei governi. In tutto il vecchio mondo euro-atlantico a rappresentare quella “destra” è rimasta la Merkel, pericolosamente in bilico malgrado le straordinarie performance economiche della Germania durante il suo governo. E anche i conservatori inglesi hanno dovuto pagare prezzi devastanti, con il referendum, e dopo la Brexit alla retorica populista.

Quello che chiamiamo populismo è la recidiva di una malattia ideologica che possiamo chiamare scolasticamente anti-liberale e che ha profonde e antiche radici storiche nelle società sviluppate, tanto a destra quanto a sinistra. È una Vandea ricorrente in tutte le fasi di crisi - in Italia con esiti di non invidiabile successo - che oggi si è ripresentata in grande stile di fronte alla più clamorosa (e inaspettata) trasformazione della società capitalistica.

Il sovranismo è una reazione al sospetto dell'usurpazione politica e dell'espropriazione economica da parte di poteri anonimi e occulti (tipicamente: la finanza internazionale), che prosperano in un ambiente di regole neutrali e di apertura competitiva. Anche l’immigrazione è letta angosciosamente per quella che per molti versi è: una sfida competitiva. La reazione, da destra come da sinistra, è il capovolgimento di questo senso di marcia della storia, il ritorno – vagheggiato, anche se impraticabile – al controllo diretto dell'ordine delle decisioni e delle cose e il rifiuto di qualunque forma di integrazione (economica, politica, culturale) che faccia saltare le rendite materiali e simboliche della cosiddetta “identità”.

Il populismo vince da destra, anziché da sinistra, semplicemente perché è la destra anti-liberale, più della sinistra anti-liberale e vetero-internazionalista a potere interpretare più credibilmente la “paura dell’uomo bianco”

Che comunque i candidati oggi più competitivi con la destra populista siano esponenti della sinistra populista non può stupire, perché appartengono anch'essi alla (anti)politica mainstream, ma questo non fa di loro un'alternativa anti-populista. Che Trump abbia vinto la Casa Bianca grazie a Sanders e alla sua rivolta alla stagione clintoniana non deve stupire, come non stupisce che oggi Salvini imperversi come padrone della politica italiana grazie al voto di quanti hanno voluto punire il PD "liberista" votando per il M5S e magari innamorandosi del bombaccismo grillino del presidente Fico e della sua componente parlamentare.

Il Pd ha perso dalle europee del 2014 alle politiche del 2018 poco meno della metà dei suoi voti e la gran parte di essi sono finiti fuori dal perimetro formale della sinistra. Ci sono però finiti per ragioni che non sarebbe improprio definire classicamente “di sinistra”: berlingueriane, antiglobaliste, anticapitaliste, cospirazioniste, giustizialiste... Gli elettori democratici delusi si sono cioè riassestati (verrebbe da dire: razionalmente) lungo la linea di faglia della politica contemporanea, che è quella, detto semplicisticamente, tra integrazione e disintegrazione del villaggio politico globale. Chi del PD vuole seguirli - sposandone magari, come fa Zingaretti, anche la retorica ingenuamente antieuropea e antitedesca - non restituirà una missione di sinistra al PD, ma lo arruolerà come truppa di complemento populisticamente corretta del governo giallo-verde.

Rassegnatevi compagni. Non è la sinistra l’alternativa al populismo. Il progressismo del XXI secolo non passa per nessuno degli antichi fasti e non è neppure detto che sia proprio “di sinistra”.

@carmelopalma