Ryan 1983. L’incubo dell’apocalisse atomica ai tempi della Guerra Fredda
Istituzioni ed economia
Cosa hanno in comune Vamos a la playa dei Righeira e Burning Down the House dei Talking Heads, canzoni in heavy rotation nelle radio italiane in quel 1983 in cui è ambientato il romanzo distopico di Stefano Magni RYAN 1983 attacco all’Occidente?
Oltre all’anno d’uscita, il 1983, sicuramente il parlare, seppure in ambito pop, di guerra nucleare. I Righeira, su una base dance ruffiana quanto indovinata, lo facevano in modo piuttosto esplicito (“Vamos a la playa, la bomba estallò. Las radiaciones tuestan y matizan de azul” / “Andiamo al mare, la bomba scoppiò. Le radiazioni bruciano e colorano di blu” ), i Talking Heads, artefici di un sound più cerebrale e raffinato, che affondava le proprie radici nella new wave newyorkese di fine Anni Settanta, usavano metafore e allegorie, ma non erano per questo meno efficaci.
Molta cultura popolare di quel periodo – cinema, musica, fumetti – era ossessionata dall’incubo nucleare. Kenshiro, cartone animato giapponese di grande successo, trasmesso in Italia nel 1984, ma uscito in Giappone nel 1983, è ambientato in un mondo post-atomico. Mad Max, film record di incassi ai botteghini, ritrae un universo post nucleare, lo stesso che farà da sfondo al videoclip della celebre Wild Boys dei Duran Duran.
Riflettendo ex post, appare evidente come gli artisti, molto più della gente comune che, specie in Italia, guardava alla vita con rinnovato ottimismo dopo la stagione buia della “Notte della Repubblica”, avessero intercettato quel clima di paura e incertezza di cui parla il romanzo di Magni. Il lavoro dello scrittore e giornalista milanese, che può essere letto legittimamente come romanzo storico, romanzo di formazione, ma anche come romanzo sociologico sugli Anni Ottanta sulla falsariga del Weekend Postmoderno tondelliano, nelle prime intenzioni di Magni doveva essere un saggio, volto a ricostruire le complesse vicende legate all’operazione RYAN che i sovietici volevano effettuare in Europa occidentale.
Per conoscere la genesi del romanzo e approfondire alcuni dei temi affrontati in questa interessante opera ho chiacchierato a lungo con l’ autore.
«Ryan, che sembra un nome di persona, qualcuno lo potrebbe ricollegare al protagonista dei romanzi di Tom Clancy, in realtà si pronuncia Rian alla russa non Raian, è un acronimo russo che significa attacco missilistico a sorpresa. È il nome di un’operazione congiunta del KGB e del GRU volta a individuare i sintomi di un eventuale attacco missilistico contro l’Unione Sovietica. Quando ho scoperto l’esistenza di questa operazione, prima leggendo le memorie del defezionista del KGB Oleg Gordievsky, poi gli scritti di Robert Gates, ex vicedirettore della CIA durante la crisi del 1983, ho avuto la conferma di ciò che avevo appreso da altre fonti e che mi aveva molto impressionato. Ossia il fatto che nei primi anni Ottanta rischiava di scoppiare una guerra nucleare in Europa perché i sovietici erano convinti che non ci sarebbe stata nessuna possibilità di coesistenza pacifica tra il blocco occidentale capitalista e il blocco orientale comunista. Questa era un’idea ben radicata nella leadership sovietica nel tardo periodo Brezhnev e poi nella fase di transizione tra Brezhnev e Gorbaciov. L’effetto pratico di questo punto di vista era l’operazione RYAN. Capire cioè quando l’Occidente avrebbe lanciato un attacco missilistico e di conseguenza attaccare preventivamente prima che la NATO potesse colpire. La mia idea iniziale era quella di scriverne un saggio».
Constatata l’impossibilità pratica di realizzare un saggio, sia per la mancanza di interesse da parte dell’editoria italiana sia per la mancanza di solidità dell’argomento – nel 2003 molti documenti essenziali dovevano ancora essere declassificati, lo saranno qualche anno più tardi nel 2010 – Magni, che sente comunque l’urgenza di raccontare questa vicenda, decide di trasformarla in un romanzo.
«Tra il 2003 e il 2008 scrissi un romanzo che superava le mille pagine. C’erano otto storie parallele, di otto personaggi, che si sviluppavano dalla scoppio della crisi fino alla guerra. Era un romanzo estremamente lungo e complicato anche da leggere, che a un certo punto ho deciso di tenere nel cassetto. Quando nel 2015 ho pubblicato il primo romanzo di storia alternativa, Piazza Caporetto, che ha riscosso un certo successo, ho discusso con il mio editore la possibilità di pubblicare un altro libro dello stesso genere. Avendo già pronta questa storia ho pensato di utilizzare il materiale per trarne un libro più piccolo, più compatto e più leggibile. Ho selezionato la parte che mi interessava di più, ossia quella riguardante la crisi che avrebbe poi portato alla scoppio del conflitto, quella storicamente più fondata. L’ho ripescata dal cassetto, l’ho rielaborata riscrivendo molte parti storiche ed è nato questo nuovo libro. Nel frattempo questa tesi, lungi dallo smentirsi, si è ulteriormente rafforzata con la declassificazione di tanto altro materiale che conferma come effettivamente nel 1983 il rischio di una guerra nucleare tra USA e URSS fosse estremamente concreto».
Lo stesso rigore filologico usato nella ricostruzione storica degli eventi – l’abbattimento sovietico di un aereo passeggeri coreano, la crisi dei missili europei, il conflitto in Libano e la guerra a Grenada – viene usato dall’autore per descrivere il contesto socio-culturale che fa da sfondo alle vicende del diciassettenne Giorgio Bastiani, un adolescente in cerca di se stesso in mezzo alle tribù urbane dell’epoca (paninari, metallari, china, etc).
«Sono nato nel 1976 e quindi ho 10 anni di meno rispetto al protagonista di RYAN 1983. Per questa ragione più che affidarmi a memorie personali, ho dovuto fare un lavoro di ricostruzione. Ho consultato tutta la stampa popolare, ho parlato con persone che hanno vissuto in quell’epoca e ho letto tutti i giornali e le riviste più o meno serie pubblicate nel 1983».
Oltre all’inevitabile operazione nostalgia – «ricordo quegli anni come un periodo dorato, mi piaceva la musica, mi piacevano le trasmissioni tipo Drive In…» – ciò che sorprende di più Magni è il fatto «che negli ambienti culturalmente più consapevoli c’era paura della guerra nucleare, ma, per così dire, dalla parte sbagliata».
«L’ambiente più colto dell’epoca era convinto che la guerra nucleare potesse scoppiare per un comportamento irresponsabile degli Stati Uniti di Ronald Reagan. Di fatto avevano paura di Reagan, ma non avevano paura dell’Unione Sovietica. E tutte le accuse che si leggono sui quotidiani di sinistra a partire dal Manifesto, uno dei più attivi nel promuovere la campagna pacifista del 1983, sono articoli che visti con gli occhi di oggi risultano surreali perché rivolgono agli Stati Uniti le accuse che avrebbero dovuto rivolgere all’URSS. Nello specifico accusano gli Stati Uniti di essere paranoici, di vivere la Guerra Fredda come una contrapposizione insanabile di blocchi, di avere paura di un attacco sovietico, di cercare di prevenirlo per fare scoppiare in modo più o meno accidentale una guerra nucleare. Di conseguenza tutta la campagna pacifista era volta unicamente al contenimento degli Stati Uniti, quindi al disarmo del solo Occidente come se l’URSS fosse talmente responsabile da non necessitare alcun tipo di contenimento».
La sorpresa forse più eclatante per il giornalista milanese è scoprire che queste tesi erano diffuse anche in quotidiani meno ideologizzati.
«Sul Corriere della Sera ho trovato un articolo di Ettore Mo che accusa di avventurismo l’amministrazione Reagan in particolar modo nell’America Centrale e identifica in Cuba un "responsabile guardiano dei Caraibi" e siamo in un periodo in cui i sovietici stavano destabilizzando sistematicamente l’America Centrale appoggiando la guerriglia nel Salvador, il regime di Ortega in Nicaragua che a sua volta esportava la rivoluzione nei Paesi vicini, sostenendo Cuba e Grenada dove i comunisti erano arrivati al potere con un colpo di stato. Leggere questo articolo di Ettore Mo, che non può essere accusato di filo-sovietismo, visto che era l’uomo dei reportage dall’Afghanistan, è stato rivelatorio del clima culturale di quegli anni. Tutti avevano paura del comportamento degli Stati Uniti, nessuno si faceva domande su cosa stessero pensando o si stessero preparando a fare in Unione Sovietica».
A distanza di trentacinque anni, in un contesto geopolitico sostanzialmente mutato, ritroviamo in molti ambienti culturali italiani non solo una benevolenza simile nei confronti dell’erede dell’URSS, ossia la Russia di Putin, ma anche la stessa propensione a credere alla dezinformatsiya del Cremlino.
«I russi, come i sovietici a loro tempo, si dicono attaccati e considerano ogni dichiarazione occidentale, ogni politica occidentale, come un atto di aggressione nei loro confronti. Ora non so se credano realmente di essere aggrediti o se questo sia solo un atteggiamento auto assolutorio. Se è un atteggiamento auto assolutorio allora è qualcosa che si può smontare abbastanza facilmente. Con un semplice ragionamento si può dire che l’Ucraina non era affatto entrata nella NATO e non aveva alcuna intenzione di entrare nella NATO nel 2013, quindi l’aggressione russa, che viene spacciata dalla propaganda del Cremlino come un atto di prevenzione contro un’eccessiva espansione della NATO a Est è una tesi che può essere razionalmente smontata. Però è una tesi che affascina tanti. Adesso affascina più la destra che la sinistra perché è più la destra che si identifica con la Russia di Putin. Affascinando tanti può creare un effetto collaterale molto spiacevole, cioè il credere alla propria propaganda. Nel momento in cui ripeti una bugia migliaia di volte quella bugia diventa verità. E nel momento in cui tu inizi a credere alle tue stesse bugie è probabile a questo punto trovarsi un leader russo che credendo di essere aggredito inizia a pensare in termini di attacco preventivo come nel 1983».