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L’Assemblea Nazionale del PD è stata dominata dall’intervento di Matteo Renzi, che è insieme ancora troppo forte per essere “licenziato” e archiviato come il colpevole della disfatta elettorale e troppo debole per rappresentare un’alternativa vincente per il PD del futuro.

Non ci sono veri competitor interni a Renzi, che se si presentasse alle primarie potrebbe forse pure rivincerle, ma al prezzo di libanizzare definitivamente il partito e di restringerne ulteriormente il perimetro di immagine e consenso. Ma il PD, finché resterà “renziano”, cioè rappresentato in primo luogo dall’ex Presidente del Consiglio, sarà destinato alla marginalità e all’irrilevanza.

Questa analisi delle forze e delle debolezze in campo è, in realtà, del tutto indipendente dai meriti che vanno riconosciuti e dai demeriti che vanno addebitati a Renzi. Si può ritenere (a mio parere a ragione) che l’ex golden boy sia stato oggettivamente, anche al di là delle intenzioni e della retorica populista, il più decisivo innovatore della cultura politica della sinistra di governo e concludere realisticamente che l’unico modo per salvaguardare la continuità di questa positiva “rottura” sia cessare di farla coincidere con la figura, con la persona e con la complicata e narcisistica psicologia dell’ex segretario del PD.

Se Renzi si concedesse una pausa, ritagliandosi ad esempio un ruolo da deputato europeo non anonimo, ma lontano dalla stanza dei bottoni del partito, sarebbe più facile difendere il meglio del “renzismo”, che peraltro è a sua volta una summa di fuffa e di sostanza, di parole nuove e di vecchia retorica, di buona politica e di cattiva antipolitica. Far coincidere il “renzismo” con Renzi è un errore fatale come quello di far coincidere il “clintonismo” (cioè la più straordinaria modernizzazione del pensiero progressista globale) con la coppia Hillary-Bill – un errore catastrofico, viste le conseguenze, non solo per i democratici americani ma per l’ordine politico e economico internazionale.

Oggi chi non ha mai sopportato Renzi per il fatto di avere traghettato la sinistra dove nessuno, neppure Veltroni, aveva osato non solo indirizzarla, ma neppure immaginarla, ha gioco facile a promettere la restaurazione ideologica e la riconnessione del PD alle radici della sua storia. Ma la presenza di Renzi sulla scena paradossalmente giustifica, e non argina, i teorici della restaurazione.

Oggi, a parte Martina, qualunque dirigente di peso del PD (da Zingaretti a Calenda) immagina una strategia di sopravvivenza che passa dall’azzeramento o dal superamento del PD. Ma la rottamazione del PD, più che la scelta di una forma politico-organizzativa allargata e adeguata alla sfida populista, sembra essere in primo luogo propedeutica al “ritorno a sinistra” e fondarsi sull’analisi sbagliata e autoconsolatoria che in Italia (e in gran parte dell’Occidente) i democratici e i socialisti sono in crisi per avere rinnegato le proprie radici e per avere ceduto al “pensiero unico liberista”. Zingaretti, nella sua intervista di auto-investitura al Corriere della Sera, l’ha sostenuto con una imbarazzante schematicità concettuale: il liberismo ha indebolito l’Occidente e la crisi dell’Occidente ha indebolito la sinistra. Una lettura cripto-sovranista.

La vera questione politica che dovrebbe essere al centro della riflessione del PD è resa, proprio dalla permanente incombenza dell’ex premier, una questione banalmente personale, ma non lo è affatto. La rottamazione del renzismo e il ritorno nella foresta dei totem e dei tabù della sinistra pre-globalizzazione non è solo un regolamento di conti con Renzi e il suo inner circle. Rischia di essere una restaurazione in piena regola e di togliere non solo spazio, ma anche legittimità a chi nel PD vorrà continuare a difendere il progressismo come alternativa culturale, politica e di governo al conservatorismo socio-economico della CGIL, che per due decenni ha costruito le parole d’ordine oggi salite al potere proprio contro il PD e declamate dal super ministro Di Maio nel governo penta-leghista.