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Si può essere euroscettici, e finanche manifestare pubblicamente posizioni politiche contro l’Unione europea. Questo è il sale della democrazia liberale: ognuno ha diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero. La particolarità, però, di questo regime di governo (soprattutto nella sua “evoluzione” costituzionale) sta nella predisposizione a sviluppare anticorpi idonei a contenere anche pericolose “opzioni di rottura”, a prevedere spazi di compensazione (e di composizione) del dissenso rispetto alla volontà della maggioranza. Mi viene in mente Leopoldo Elia che, a proposito della libertà di coscienza, parlava di “leggi facoltizzanti” – come prodotto qualitativo della democrazia parlamentare – indirizzate a dare voce e a mantenere le diverse forme di obiezione di coscienza nello spazio della legalità costituzionale, così da evitare la genesi di forme di lealtà “esterne” – e magari ostili – allo stato di diritto costituzionale.

Se, dunque, qualcuno dei nostri governanti ha voglia di mettere in campo proposte articolate di critica nei confronti del sistema politico-istituzionale europeo, lo faccia discutendone in Parlamento, nelle sedi europee all’uopo previste e attenendosi alle procedure stabilite dal diritto dell’Unione europea. Questa doppia matrice – valoriale e metodologica – della democrazia liberale, la “forza delle sue buone ragioni” (Bobbio), rappresenta l’essenza dei patrimoni costituzionali che gli stati membri dell’Unione europea hanno “travasato” nel progetto comune. La messa a disposizione di “quote di sovranità” finalizzate a costruire organizzazioni internazionali aventi lo scopo di perseguire “la pace e la sicurezza tra le Nazioni” (art. 11 Cost.) è la prova più alta della forza e non della debolezza degli stati democratici. Più uno stato è forte democraticamente (più “si fida” delle sue istituzioni) maggiore è il contributo che può dare al rafforzamento delle istituzioni sovranazionali (UE e altre) nate per fungere da scudo contro il possibile riemergere dei totalitarismi.

La sfida da cogliere ancora una volta, dunque (specie al Sud), sta nella battaglia per la democrazia liberale (con i suoi principi e le sue procedure formali). Una battaglia a favore di quel “comune denominatore di tutte le questioni politicamente rilevanti” (come Bobbio definiva la democrazia liberale) oggi fortemente declinato in senso multilevel stante la messa in circolazione negli ordinamenti interni di materiali (politici e normativi) di provenienza europea. Nessuno può immaginare che la conservazione della democrazia (liberale) costituzionale possa accordare (in momenti di crisi) flessioni, tentennamenti, “pause” sui  principi-valori fondamentali (il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale, delle regole e delle prassi costituzionali, etc.) a vantaggio dei voti e delle maggioranze politiche contingenti.  Se questo accadesse – se la sfida populista e sovranista guadagnasse terreno – questo significherebbe dover fare nuovamente i conti con i rigurgiti di antiche malattie.

“Se io mi sorprendo – scriveva Calamandrei – a dubitare che i morti siano morti invano, che gli ideali per cui sono morti fossero stolte illusioni, io porto con questo dubbio il mio contributo alla rinascita del fascismo”

Sarebbe, allora, importante che proprio dal Sud partisse una riscossa sul significato politico (e giuridico) del progetto euro-unitario quale migliore prodotto della combinazione di liberalismo e democrazia. L’Europa deve ritornare ad essere un “esercizio quotidiano” nell’azione politica di quanti (specie al Sud) lavorano per migliorare le proprie e altrui condizioni. Non è solo questione di cattiva gestione dei fondi europei (quantunque grave), oppure di governabilità e di rappresentanza, ma anche, e soprattutto, di rinnovata comunicazione su ciò che l’Europa ha rappresentato in termini di conquiste in materia di diritti civili, sociali, di libertà delle persone e dei gruppi. Se non ci fosse stata la giurisprudenza europea (dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa) nessuna breccia nelle mura delle sovranità nazionali sarebbe stata aperta. Alcuni paesi hanno saputo meglio cogliere queste opportunità, altri meno: ma la strada segnata dal diritto multilivello europeo rappresenta un patrimonio troppo importante (specie per il Sud), pericolosamente messo a rischio dalla nuova retorica populista e sovranista.

C’è una pancia dell’elettorato meridionale (di cui buona parte un tempo “riformista” e oggi confluita nell’esperimento 5Stelle, un’altra un tempo “moderata” e oggi leghista) che rifiuta l’Europa (come progetto e come prospettiva); che pensa (in alcune sue componenti non marginali) che nessuna riforma della governance europea sia utile né necessaria e che in maniera masochistica spera nella sua implosione facendo leva sulle sponde “rassicuranti” di nuove politiche assistenzialistiche, protezionistiche e di accattivanti messaggi securitari. Vale, perciò, oggi più di ieri, il monito di Ventotene:

“È il momento in cui bisogna (...) suscitare nuove energie (…) cominciare a tessere la trama del futuro (…) raccogliere (…) l'eredità di tutti i movimenti di elevazione dell'umanità, naufragati per incomprensione del fine da raggiungere o dei mezzi come raggiungerlo”.