Democrazia o free-riderismo? Solidarietà o irresponsabilità? Oltre il debito e oltre l'austerity, il caso della Grecia fornisce importanti spunti di riflessione sul ruolo dello Stato nell'intermediazione di una spesa pubblica fuori controllo.

parigi grande

Il rapporto tra democrazia e globalizzazione ed il ruolo dello stato nazionale, il futuro dell'unione monetaria, i pro e contro dell'intervento pubblico nell'economia, ma anche e, inevitabilmente, le sorti della stessa economia italiana, che con la Grecia condivide molti problemi strutturali. Sono alcuni dei grandi temi attorno a cui ruota la vicenda ellenica, che va molto oltre le più dibattute questioni del debito e dell'austerità. Per questo, l'accordo raggiunto il 20 febbraio scorso tra Atene ed i paesi creditori è soltanto l'inizio di una lunga, complessa e faticosa fase di negoziazione, che nei prossimi mesi andrà seguita da vicino, e in cui si dovrà decidere, una volta per tutte, se Alexis Tsipras ed il suo nuovo governo avranno le carte per consentire al proprio paese di rimanere responsabilmente tra i membri dell'eurozona o se invece altre strade dovranno essere percorse.

Il debito, innanzitutto. A volte si ha come l'impressione che, nelle convulse settimane trascorse, gli attori coinvolti non abbiano parlato di altro, eppure, aldilà delle opzioni tecnicamente possibili (da un taglio secco del valore nominale, a una ulteriore riduzione del net present value allungando le scadenze e riducendo gli interessi, e variazioni sul tema quale, ad esempio, la possibilità di sostituire le passività esistenti con obbligazioni GDP-linked, la cui cedola, cioè, sia legata alla crescita futura del Pil), dopo la ristrutturazione del 2012, il punto ha cessato di essere dirimente. Infatti lo scorso anno il totale degli interessi pagati dalla Grecia in rapporto al Pil si è attestato a circa il 2,6% (ed è previsto scendere ancora), ovvero una cifra storicamente bassa, più bassa di quanto oggi pagano Italia e Spagna. Inoltre, la scadenza media è ormai lunghissima (prossima ai 20 anni), molto più lunga che per i principali partners europei.

Né dirimente per sé, a ben vedere, è la polemica che ruota attorno all'austerity, ormai una sorta di parola catch-all, cui si fa ricorso per indicare cose spesso anche molto diverse, e divenuta più arma di lotta ideologica che serio strumento di analisi. Nello specifico, una volta riconosciuto, per le ragioni dette sopra, che il valore del rapporto debito Pil - 176% all'ultima rilevazione - ha ormai perso molto del suo significato sostanziale, non sarebbe un grosso problema rilassare gli obiettivi di avanzo primario. Ciò, come richiesto da Syriza, metterebbe nella disponibilità dell'esecutivo nuove risorse. Le divergenze cominciano quando si tratta di capire a quali capitoli destinarle: al finanziamento di un sussidio di disoccupazione moderno, controparte della necessaria flessibilità da raggiungere nel mercato del lavoro, od al semplice innalzamento del salario minimo? Agli investimenti in tecnologia e capitale umano, necessari per elevare la scarsissima efficienza delle varie agenzie governative, o alla riassunzione indiscriminata di dipendenti pubblici?

Qui sta il vero oggetto del contendere, tanto importante quanto inspiegabilmente negletto, soprattutto se si pensa ai molti commentatori d'oltremanica (e d'oltreoceano) che seguitano a ripetere ossessivamente che solo più spesa potrà salvare i paesi periferici dell'Europa. Ma limitarsi a sostenere che bisogna spendere, come i più fanno, è inutile quando non perfino dannoso, se non si definisce con esattezza come, dove e perché. Keynes o non Keynes, la spesa e la domanda non possono essere una scatola nera di cui nessuno conosce il contenuto. In fondo, la Grecia è nei guai proprio per l'eccesso di spesa protrattosi per lunghi anni: se in passato (durante un po' tutta la storia democratica post 1974) vi fosse stata una gestione più oculata e meno orientata al consenso di brevissimo termine ora le cose sarebbero diverse (tra il 2000 ed il 2009 la spesa pubblica è raddoppiata, passando da 60 ad oltre 120 miliardi di euro, con una crescita vicina all'8% annuo).

Il punto non è negare un ruolo alle misure anti-cicliche sul lato della domanda (in particolare nella forma dei cosiddetti stabilizzatori automatici) o che esistano fasi del ciclo economico in cui sia desiderabile una stance fiscale non restrittiva ed una politica monetaria accomodante, il punto è convincersi della necessità di invertire la sequenza delle priorità. In molti degli Stati più in difficoltà si registra la pressoché totale assenza di analisi costi-benefici serie ed indipendenti a monte delle decisioni di finanza pubblica, dunque non c'è garanzia alcuna di ritorni economici e sociali accettabili. Senza dimenticare che, allorquando i meccanismi allocativi sono seriamente compromessi, esiste la reale possibilità che una dotazione in eccesso di fondi possa risultare alla fine controproducente, non diversamente da quanto accaduto al denaro convogliato negli anni verso i paesi in via di sviluppo istituzionalmente deboli, in cui l'aiuto internazionale ha alimentato corruzione e malaffare.

Con la consapevolezza che l'importanza di questi temi non potrà che accrescersi sempre di più, potremmo dire che ciò che fa premio per competere nell'arena globale non sono i vantaggi comparati di ricardiana memoria, quanto i vantaggi assoluti. Lo svantaggio assoluto di paesi come la Grecia e l'Italia è lo Stato e il modo in cui opera nelle varie funzioni, presiedendo, attraverso la propria pervasiva intermediazione, al drenaggio continuo di risorse dal sistema produttivo verso il sussidio e l'assistenza. Quando contano meno "i regali" della natura e assai più i frutti delle decisioni pubbliche, in un tempo in cui la tecnologia ed il lavoro qualificato si spostano con maggiore velocità e frequenza, essere poco competitivi, avere una bassa qualità dei servizi e, di conseguenza, una scarsa capacità di attrarre e trattenere, di integrare l'economia nelle catene di produzione internazionali ad alto valore aggiunto, è il peccato capitale. Ristrutturare lo Stato, al di qua come al di là dello Ionio, è forse il compito più urgente.

Ciò non significa che non esistano parti del programma politico di Syriza effettivamente più promettenti, in particolare, come non di rado accade ai partiti della sinistra europea, la dichiarata volontà di attaccare i cosiddetti vested interest, gli interessi organizzati, aprendo, almeno in potenza, alla possibilità di ampie liberalizzazioni, della miriade di professioni ancora chiuse, delle tariffe, delle attività economiche esercitabili solo dietro licenze custodite gelosamente. Ma occorrerà vigilare, perché per un risultato soddisfacente non basta la volontà politica di attaccare le constituency ritenute avversarie, non se fa difetto una genuina comprensione dei meccanismi per cui la concorrenza è forza positiva di innovazione e cambiamento. Purtroppo, sappiamo che, a destra come a sinistra, tale comprensione è in offerta molto limitata e la concorrenza viene spesso percepita come qualcosa da cui difendersi e rifuggire.

Nondimeno, tutto questo, ci viene detto, i discorsi sulle riforme strutturali, sulla spesa e sullo Stato da rifondare, seppur forse importante, non coglierebbe il cuore della questione perché, in ultima analisi, la sorte della Grecia sarebbe nelle mani del popolo greco, il quale ha parlato chiaro in occasione delle ultime elezioni e, secondo i sondaggi, ha preso a sostenere con sempre maggiore forza l'azione del nuovo governo man mano che essa si faceva più dura nei toni del confronto-scontro con Bruxelles.

Ma possiamo davvero accettare l'argomento, fatto proprio anche da Krugman e Stiglitz, tra gli altri, della volontà popolare in un singolo paese come misuratore di tutte le cose? Non proprio.

Da una parte, si argomenta come se il nuovo governo fosse il primo della storia ellenica ad avere legittimità democratica. Se è comprensibile il desiderio di marcare una discontinuità, è impossibile ignorare che una democrazia la Grecia lo è ormai da tempo, e che la narrativa per cui i guai del passato sarebbero tutti da ascrivere ad un'oligarchia predatoria, senza che i cittadini elettori ne portino responsabilità, è palesemente infondata: ampi strati della popolazione per anni hanno approfittato delle generose larghezze del settore pubblico, ricevendone innumerevoli benefici personali. Dall'altra, sostenere de facto che la democrazia varrebbe solo per la Grecia e non per gli altri paesi partner coinvolti non regge. Dietro alla minacciosa Troika, infatti, ci sono governi, parlamenti ed elettori, le cui risorse (direttamente, attraverso varie forme di prestito, o indirettamente attraverso le garanzie fornite) sono in gioco, attori che hanno eguale diritto di essere considerati e di far sentire la propria voce. In altre parole, la democrazia tedesca non vale meno di quella ellenica.

Anche perché, se ipotizzassimo per un momento di poter passare ad una democrazia paneuropea, dove politiche, bilanci e regole venissero approvati in un parlamento continentale, il peso della Grecia nel determinare il proprio destino non potrebbe che diminuire grandemente rispetto alla situazione presente, vista la scarsa consistenza numerica cui il paese potrebbe aspirare. Ed anche il Congresso americano, talvolta così solerte nel criticare i tedeschi, cambierebbe registro se si trattasse di non ripagare i debiti contratti con il Fondo Monetario, al cui bilancio i contribuenti americani danno significativo apporto. Più d'una volta, è sembrato che Tsipras volesse finanziare il proprio programma politico con risorse che non sono, né possono essere, nella disponibilità dei decisori democratici greci.

Come ha scritto Franco De Benedetti, l'Unione monetaria non è, e probabilmente non sarà ancora per molto tempo, un'unione politica (ammesso che ciò sia desiderabile, il dibattito resta aperto), ma un'unione di politiche, cui, in futuro, non potrà più essere concesso di divergere come accaduto fin qui. Poche ore dopo la firma a Bruxelles dell'accordo ponte in cui Atene si era formalmente impegnata, in attesa del nuovo negoziato, a mantenere in piedi l'impianto del precedente bailout ed a non rivederne in modo unilaterale le misure, a fronte di voci di rivolte interne al partito di governo, vari ministeri hanno comunicato che le privatizzazioni previste della restante parte del porto del Pireo, degli aeroporti, delle utility PPC, DEPA e ADMIE sarebbero state bloccate, aumentando così, verosimilmente, la necessità di attingere all'aiuto finanziario dall'esterno.

Aldilà dei molti dettagli tecnici, nelle trattative dei prossimi mesi sarà allora essenziale soprattutto ristabilire alcuni capi saldi, in primo luogo la differenza che esiste tra democrazia e free-riderismo, perché la solidarietà è certo importante, ma la responsabilità lo è altrettanto. Anche all'ombra dell'Acropoli il messaggio dovrà giungere forte e chiaro.

@parigimarco